Sarà che ne frequento molti ma ho notato che l’improvvisa, violenta, scomparsa di Peppe D’Avanzo, ha emozionato moltissimo i giornalisti, soprattutto quelli più periferici, cioè quelli che lavorano di più, hanno meno tutele, conoscono l’odore della strada e fanno questo mestiere per un amore feroce, spesso non corrisposto. Mi sono chiesto perchè. Ho trovato la risposta nel profilo professionale ed esistenziale di Peppe.
Come tanti, a Napoli, l’ho conosciuto, ci ho speso qualche pomeriggio. Non sto qui a cucire ricordi. Altri ne hanno sicuramente di più significativi. Mi sembra, invece, utile capire perchè D’Avanzo, a differenza di tanti altri giornalisti, colpisca così tanto l’immaginario del cronista.
Per farlo, riparto da me. Avevo circa tredici anni quando decisi che volevo fare il giornalista e lo scrittore. Cose complicate anche da descrivere, a quell’età. A diciassette cominciai a fare il corrispondente del Mattino dall’area a nord di Napoli, a venti divenni pubblicista. Pensavo di avere davanti uno spazio infinito. Ero giovane, ero pieno di energie, avevo un sogno importante, e stavo già facendomi spazio.
Poi mi sono arenato. Sono rimasto lì. Ho scritto migliaia di articoli per Il Mattino e per decine di altri giornali. Ho fatto il corrispondente da Napoli per quotidiani importanti, ho firmato inchieste, ho scritto per la cronaca, la politica, e la cultura. Ma non sono mai andato oltre le collaborazioni. Ancora oggi sono un collaboratore cronico. Mai un’assunzione seria, una opportunità, la possibilità vera di costuire su questo mestiere, una vita. Col tempo ho imparato anche a fare altro, sempre nei dintorni della comunicazione, e nell’insieme ci vivo. Maluccio, ma ci vivo. Mi resta, però, come un groppo, il rammarico di non essere riuscito a diventare un giornalista vero, tutto. Una rabbia irrisolta.
Pensando a D’Avanzo, in queste ore, ho capito perchè. La colpa è mia.
Non sono stato tenace, caparbio, ostinato, come chi, senza padroni e padrini, vuole fare questo mestiere partendo dal sottoscala. Mi sono distratto. Mi sono perso. Mi sono messo a fare altro, anche altro, troppo altro e ho cambiato prospettiva troppe volte.
Non sono voluto partire, cambiare città, allargare gli orizzonti, provare, non ho avuto coraggio, non sono stato capace di cucirmi il giornalismo addosso.
Avrei dovuto imparare la sua lezione (me ne diede una, di persona, quando ero davvero un ragazzino): non fare il giornalista, sii giornalista.
Nella mia immensa, ridicola, presunzione di quegli anni, quasi lo mandai a fanculo. Per me non significava nulla essere giornalisti se poi non trovavi spazio per farlo. Poi ho capito che lo spazio devi occuparlo a prescindere. Con il tuo ingombro. Infilarti nello spazio, esserci. Sarà che non ho mai giocato a rugby, come lui, pur avendone il fisico. Sarà che ho letto troppi romanzi.
L’ho capito tardi, quando non avevo più l’età per investirci. O quando era passato il tempo.
Oggi nutro un amore tiepido per un mestiere che mi emozionava fino all’infarto (ecco); lo tengo tiepido per non soffrire troppo della sua mancanza. Ma capisco perchè la morte di Peppe colpisca tanto l’immaginario dei giovani cronisti. Non è la sua persona, è che lui si era fatto mestiere. Lui era giornalista, non lo faceva. Lo era così profondamente da sbertucciare Travaglio e quelli come lui, quelli che fanno la giudiziaria sulle veline dei Pm, quelli che pensano di fare giornalismo sputando sentenze su interpretazioni di fatti parziali, magari in bermuda dietro la loro scrivania, quelli che copiano le ordinanze, ne fanno libri, business, e non si degnano di un approfondimento, di uno scavo, di una intuizione, di una ricerca.
D’Avanzo era l’antitesi della giudiziaria alla Travaglio. Erano i Pm a sapere cose nuove leggendo i suoi pezzi. Gli regalava fatti e chiavi di lettura.
Perchè lui non faceva il giornalista. Lo era. Come pochi. Come pochissimi.