Un figlio di buona donna. Uno che ci sa fare. Un furbo. “Uno buono”, si dice a Napoli.
Quanti modi per indicare chi riesce a muoversi con destrezza e abilità.
Nemmeno una di questa espressione fa riferimento ad un’abilità tecnica, ad una competenza, ad un sentimento. Non sono necessari.
L’affermazione di sé viaggia su un’altra direttrice: la faccia tosta, la spregiudicatezza, la capacità manipolatoria, la bugia come sistema di comunicazione, l’intreccio, l’inciucio, la relazione. L’assenza di qualunque regola.
Penso a Valter Lavitola, e mi accorgo che nessuno meglio di lui, oggi, può essere il simbolo di questa Italia.
Mi meraviglio che non sia riuscito a farsi inserire in una lista bloccata e ad entrare in Parlamento. Ne avrebbe avuto diritto e titolo.
Come certi personaggi di Alberto Sordi degli Anni Settanta, Lavitola è il prototipo dell’Italia dei demeriti. Come Sordi quando interpretava un mercante d’armi o il padre borghese piccolo piccolo, che voleva sistemare il figlio al Ministero, e dispensava inchini e regali, così Lavitola, con metodi più moderni, chiama le segretarie dei potenti, è insistente, è felpato, è arrogante, è tutto quello che serve, quando serve.
Telefona a Berlusconi e gli dice una cosa, poi chiama Cicchitto e gli dice il contrario, poi chiama la segretaria di Frattini e gliene dice un’altra ancora, e poi incrocia tutti gli inciuci, nuota nelle sue stesse balle, e nel caos, rimane sempre a galla.
Gestisce un giornale fantasma e prende venti milioni di euro in sette anni di finanziamento pubblico. Venti milioni di euro. Se ne dessero un terzo al Coordinamento dei giornalisti precari della Campania, farebbero nascere, dal basso, un sistema di comunicazione integrato web/carta/tv/social network che darebbe lavoro, conoscenza, utilità sociale.
Ma lui è “bucchinariello”, gli altri no.
Lui è un’anguilla, chiama il generale della Finanza, vicecapo dei servizi segreti, e lo sfotte: “non è che mi puoi procurare una di quelle penne che sparano, come nei film?“. Poi gli dice “Paolè, sistemiamo quella cosa. Ho parlato col capo”. Ed è tutto vero. Non è un film. Quello davvero è un generale della Finanza.
Poi chiama la segretaria di Frattini, e si presenta alla Farnesina per incontrare il vicepremier albanese. Gli dicono mettiti nell’angolo, esci a sorpresa. Ed è vero, non è un film.
Poi vola in Sudamerica con l’aereo di Stato con Berlusconi. Scende dietro di lui col sorrisone, stringe la mano e passa in rassegna. Ed è vero. Non è un film.
Poi chiama il capo e gli dà consigli su come fare questo e quello. Raccomanda uno per il Comando della Guardia di Finanza. Va a letto con la moglie dell’amico. Prenota una maserati. Piglia porte in faccia ma non gli fanno niente. Si rialza come quei pupazzi gonfiabili che agitano le braccia nei luna park.
Sempre in piedi, Lavitola. Viaggia, gira, telefona.
Ma che mestiere fa? Ma che studi ha fatto? Qual è la sua abilità? La sua competenza? Che cosa sa fare?
Chi se ne frega.
E’ uno buono, uno che ride, piange e fotte. Quasi tutto al telefono. Viaggia, muove cose, conosce gente. E’ uno che ci sa fare. Si sa muovere. Questo conta e questo basta, nel Grande circo Italia.
“Con la lingua si va in Sardegna”, diceva mio nonno, perchè andare in Sardegna, da Napoli, ai suoi tempi, significava spararla grossa. Con la lingua si va ovunque. Lui si riferiva alla parlantina ma il favoloso mondo di Lavitola prevede anche usi diversi. Leccare il culo a quelli giusti, sputare veleno su quelli sbagliati.
A mio nonno, però, Lavitola non sarebbe piaciuto. La sua generazione era quella dello scrupolo di coscienza e della questione di principio.
Che fine hanno fatto queste espressioni? Chi le pratica più? Chi rinuncia, oggi, a qualcosa per uno scrupolo? Chi si rende la vita più complicata per un fatto di prinicipio, per difendere un valore in cui crede?
Lavitola, l’albertosordi del nuovo secolo, di certo non se ne fa. Lui crede solo in sé stesso.
Lui è un vincente. Lui è italiano.
Che tristezza l’Italia dei Lavitola.
Io ho 30 anni ma condivido i valori della generazione di tuo nonno. E provo un forte senso di disagio/indignazione/frustrazione nel dover convivere quotidianamente con i tanti Lavitola di questo Paese.
Scrupolo di coscienza e questione di principio… già! Io sono cresciuta in casa con i nonni, una famiglia allargata patriarcale, come si usava una volta, in cui il figlio restava in casa quando prendeva moglie, per sostenere i genitori nell’avanzare dell’età… a me questi valori sono stati trasmessi e anch’io, come te, rabbrividisco davanti ai Lavitola e all’Italia che vogliono… ma la mia è pure una famiglia molto cattolica e, come capita ad Arturo Bandini nei libri di Fante, penso che prima o poi la paghi, che viene un terremoto e ti inghiotte, lasciando illesi i giusti… sperem…
Mi sono rivisto un bellissimo film con Totò che sicuramente conoscerai, “La banda degli onesti” e mi sono immaginato la situazione ambientata ai tempi nostri.
La banda avrebbe usato tutto il denaro e stampato di nuovo. Il figlio di Toto, che nel film è un finanziere integerrimo, oggi coprirebbe le mosse del padre e quest’ultimo, mai e poi mai si sarebbe auto denunciato per far fare bella figura al figlio, piuttosto la morte.
Farei volentieri un viaggio nel tempo
Non ci vogliono gli indignados per comprendere che l’ odierna finta democrazia rappresentativa sia un sistema morente, il problema è comprendere quali altri mostri debba partorire prima che la gente si indigni sul serio…
Forse il problema è anche individuare un’alternativa valida e, possibilmente, non totalitaria dell’odierna (finta) democrazia rappresentativa…