Non è mai una cosa seria

E’ successo questo: la fidanzata di Lavezzi, noto calciatore del Napoli, l’altro ieri, all’una di notte, a via Petrarca, zona bene di Napoli, è stata rapinata. Due uomini con una pistola l’hanno bloccata mentre era in auto con un’amica e le hanno portato via un costoso rolex.

La ragazza, sotto choc, ha subito twittato: “Napoli, città di merda”.

Mio Dio.

Immediata è partita la guerra storica: “comesipermette” contro “haragionelei”.

I “comesipermette” hanno sfoderato i soliti tre argomenti:

1) è colpa sua, è andata in giro di notte con un oggetto prezioso addosso;

2) le rapine succedono in tutto il mondo e Napoli non è più pericolosa di altre città;

3) ringraziasse il cielo che riempiamo di soldi lei e il suo fidanzato, stesse zitta e al suo posto, Napoli è la città più bella del mondo, basta parlarne male.

La fazione degli “haragionelei” ha puntato su tre concetti:

1) se capitasse a te reagiresti alla stessa maniera;

2) quante volte lo abbiamo pensato anche noi;

3) si deve essere liberi di circolare anche con un rolex d’oro, di notte, altrimenti la città è una merda davvero.

Il Mattino on line ha lanciato un sondaggio: pensi anche tu che Napoli sia una città di merda? (ovviamente merda si censura, si scrive m…).

Il settanta per cento ha risposto sì.

Il presidente De Laurentiis ha detto: “c’è la crisi, non è buona idea andare in giro col rolex”, prendendo chiaramente posizione a favore dei “comesipermette”, ma con tono indulgente, da cinepanettone.

Il sindaco de Magistris ha fatto scrivere ad uno dei suoi 200 staffisti un comunicato di solidarietà e condanna. Un colpo al cerchio, e uno alla botte. Sui social media impazza la polemica. La ragazza, intanto, è stata chiaramente costretta a chiedere scusa, ma il manager di Lavezzi fa sapere che il suo calciatore non si trova bene a Napoli.

Io posso dire, semplicemente, chi se ne frega?

Non che non mi importi della criminalità nella mia città. Ci mancherebbe. Ma per quale ragione costruirne un caso solo quando tocca ad una presunta eccellente? Rapine, scippe, furti sono eventi giornalieri. Ne accadono decine ogni giorno. Rubano l’utilitaria all’operaio, che magari la sta ancora pagando a rate. Rubano il cellulare allo studente, a cui magari è stato regalato dai genitori con grossi sacrifici. Rapinano la pensione al vecchio, fuori dall’ufficio postale.

Ma nessuno fiata. Sembra quasi un rito.

Se Napoli è una città di merda, lo è anche per la sua cronica tendenza a trasformare il crimine in un’abitudine, e poi, improvvisamente, in uno show.

Non è mai una cosa seria.

Avanti così

«Questo è vino nero», mi dici, «nero come il sangue». Sorridi. Prendi la cassetta di bottiglie di vetro, messe a gocciolare dopo il lavaggio, e la porti a terra. Le bottiglie sono allineate sottosopra, appoggiate come birilli su un foglio di giornale. «Ci vuole il paginone centrale del quotidiano», racconti, «lo uso come termometro. Quando la carta cambia colore e si scurisce, le bottiglie sono pronte. Per questo uso il quotidiano».  Mi chiedi di aiutarti a portare la damigiana da 54 litri sul tavolino. «Una volta ce la facevo da solo», chiarisci, «ma erano altri tempi».

Al mio tre. Via.

Ti sistemi su uno sgabello di legno e tiri le bottiglie dalla cassetta. Le allinei ai tuoi piedi. Infili una cannula marrone, sostenuta da una bacchetta di bambù, nella damigiana. Poi fai scivolare un imbuto nel collo della prima bottiglia. Mi guardi e mi sorridi di nuovo. Tiri il fiato nel petto, ti gonfi come un salvagente, metti la cannula in bocca e schiocchi un risucchio deciso. Vedo il vino correre nella pompa opaca, come il medicinale di una flebo. Ti arriva in bocca, tu sfili rapido la canna e la metti nell’imbuto. Il vino si fionda nella bottiglia e la colora, la pressione è imponente come una fontana aperta al massimo.

«E’ proprio nero», dici, «quest’anno è un inchiostro».

Sono trentacinque anni che lo dici. Tutti gli anni, da trentacinque anni, dopo il primo fiotto, il vino è un inchiostro. Tutti gli anni, da trentacinque anni, ti metti qui su questo balconcino di tre metri, in questo appartamento di ottanta metri, al sesto piano di uno dei duecento palazzi di questo quartiere periferico, e prepari le sessanta bottiglie da tre quarti per l’inverno. La damigiana di aglianico dei costoni di Monte di Procida te la fai arrivare direttamente da lì. Poi compri sessanta bottiglie nuove nel negozio sotto casa, compri settanta (dieci in più, non si può mai sapere) tappi di plastica con la scalanatura in una ferramenta di Pozzuoli e settanta gabbiette di metallo con la chiusura a chiavetta.

«Quest’anno è inchiostro», ribadisci, mentre riempi la decima bottiglia, «inchiostro vero» e fai una smorfia di piacere con la bocca rigirandoti sulla lingua il sapore del primo sorso. «Mio padre», dici, «ne aveva tre filari in un costone, nel fossato sulla panoramica. L’uva la premeva con i suoi piedi».

Sai bene che non sono un bevitore di vino. Con me la bottiglia buona è sprecata. Quando prendo un sorso di vino sento la lingua che mi pizzica come punta dal cacao amaro, poi mi stringe la gola come un singhiozzo e poi scende nell’allegria e mi bacia la pancia dal di dentro. Come un solletico, lo stesso che da bambino mi faceva la tua barba ruvida sulla mia guancia, le rare volte che mi davi un bacio, per un bel voto o per un tuo, improvviso, momento di gioia, che ti fioriva negli occhi, come adesso che la ventesima bottiglia è piena e decidi di fare una pausa. Stacchi la pompa. Dici che sei stanco ma in realtà vuoi solo risentire l’emozione, e lo sbuffo di vino in bocca, del flusso che si riavvia.

Resto qui a guardarti. Lo faccio sempre quando imbottigli, da trentacinque anni. Non me lo hai mai chiesto ma so che te lo aspetti. Sei felice di avermi lì, a guardare quel gioco meccanico e antico. «Questo vino è raro», dici, «raro e nero, come il sangue». E sorridi ancora di quest’idea corposa e densa del sangue. Il sangue nero di vena, mica quello slavato delle feritine.

Potresti comprare le sessanta bottiglie già belle e imbottigliate. E invece vuoi battere col martelletto sul tappo e poi vuoi chiudere le gabbiette con le tue mani fino a piagarti le dita. Guardandoti, in questo rito dell’imbottigliamento, capisco il tempo, e che cos’è la memoria, e dove si depositano i ricordi, e dove ti conserverò, papà, quando non ci sarai più.

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Domani mio padre compie 72 anni.

Avanti così!

 

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