L’Italia è a un bivio, ormai è chiaro. Si cambia o si cambia. Non c’è alternativa.
A me la cosa non fa impressione. Il cambiamento lo auspico, lo desidero, lo voglio. Non mi piace questo Paese, e voglio che si trasformi.
Non mi piacciono le troppe disparità tra ricchi e poveri, tra garantiti e diseredati, tra chi lavora poco e guadagna molto, e chi lavora tanto e guadagna poco, tra chi ha molte sicurezze e chi non ne ha nessuna; non mi piace vedere gente che vale meno di me, guadagnare di più, e vivere meglio; non mi piacciono i figli di; non mi piacciono le prediche demagogiche, le sciatterie, la cultura marchettara dello scambio, l’omertà corporativa.
Non mi piacciono i giornali pieni di figli di giornalisti e le università piene di figli di professori.
Vorrei un Paese più serio, più rigoroso, più giusto, più attento al talento, e meno all’inciucio, al padrinaggio.
Sento in giro molte resistenze verso il cambiamento. Paure, tensioni. C’è chi teme di peggiorare la sua situazione. Lo capisco. E’ un brivido che percorre anche la mia schiena. Ma, come scrive Massimo Gramellini, “se vuoi fare un passo avanti devi perdere l’equilibrio per un attimo”.
Io ci sto.
So che dalla crisi posso uscire peggio. So che dalla riforma del sistema Italia possono aggravarsi le disparità, ridursi i diritti, perchè questo cambiamento sembra gestito proprio da chi ha costruito l’Italia ingiusta. Ma so anche che, oggi, non c’è alternativa a cambiare. Dobbiamo sperare.
Io guardo positivamente, per esempio, alla riforma delle pensioni, e mi sorprende che la sinistra sia così arroccata. Oggi, in Italia, con il riscatto degli anni di laurea, e altre amenità, c’è gente che ha cominciato a lavorare a venticinque anni (con tutti i diritti e le garanzie: mondo a noi sconosciuto) e vuole andare in pensione a meno di sessanta.
L’età media della pensione di anzianità, in Italia, è 58 anni. Credo che sia una vergogna. La gente a 58-60 anni, oggi, è più che sana. In grado di lavorare. Perchè deve essere mantenuta dal sistema?
La riforma vuole chiedere che si vada in pensione a 61-62 anni, magari 65 per tutti. Qualche anno in più di lavoro garantito, sicuro, tutelato (ferie, riposi, malattie) non mi sembrano un dramma. Succede in tutta Europa. Se poi, con quelle riforme, si recuperano risorse e si comincia a dare qualche diritto anche a chi non ne ha nessuno, si fanno passi avanti e non indietro.
Capisco che chi ha vissuto tutta la vita nelle garanzie, senta tremare un po’ le gambe.
A me non tremano.
Una delle priorità, oggi, in Italia, sono le condizioni di lavoratori che hanno contratti a termine, o a progetti, o nessun contratto, salari da fame, e orari e pressioni da schiavitù. Cose che questo Paese non vede dagli anni Cinquanta e con cui la mia generazione convive da sempre. Non parlo di fannulloni ma di gente di tutte le categorie, dai ricercatori ai medici, che si danno da fare. Che non sono disoccupati. Lavorano. Lo fanno, generalmente, il triplo di quelli garantiti, avendoli come colleghi, e guadagnando un terzo. Essendo, spesso, anche più bravi. Non hanno nessuna forma di previdenza e nessun ammortizzatore, hanno salari bassissimi e se si ammalano, o aspettano un figlio, vengono licenziati, senza cassa integrazione.
Togliere a chi ha più certezze e dare a chi ne ha di meno. Di questo cambiamento non ho paura.
Io.