La schiena ustionata

Ieri sera sono andato al teatro Trianon Viviani di Napoli.

Per chi non conosce Napoli, si trova in una traversa di Corso Umberto I, all’imbocco di un labirinto di vicoli che si allarga intorno ad uno dei cento cuori della città storica, quello che interseca Forcella, uno dei decumani, la Vicaria, fino a Castel Capuano.

Dall’atrio del teatro ho alzato gli occhi e ho visto un palazzo enorme, che mi ha impressionato.

Non aveva più l’intonaco, e nemmeno la calce. Era scarnificato, si leggevano le ossa della struttura originaria, la colonna fecale era scoperta come la vertebra di un uomo magrissimo.

Lungo la parete, che aveva alcune finestre e solo tre balconici in alto, i mattoni trasudavano umidità grigia. La sensazione era quella di una schiena ustionata.

Ho chiesto cosa fosse, mi hanno detto un ospedale.

Ho guardato bene. C’erano neon accesi, e qualcuno in pigiama affacciato alle finestre. Mi sono chiesto se da lì avessero cognizione di essere appoggiati sul vuoto.

Quattro pietre di tufo cadenti come denti marci.

Accanto all’ospedale c’era una palazzina gialla, ristrutturata, bellissima. Il tetto a piccole torri, e tutta la facciata intarsiata di fresco.

Sotto c’era un bar chiamato “Polo nord”. Mi sono chiesto perché. Poi ho guardato di fronte. C’era un altro bar, chiamato “Polo sud”.

Ho guardato la pelle ustionata dell’ospedale e quel bel viso truccato della palazzina attigua, e mi sono detto che sembravano le due metà di un volto. A sinistra, lo sfregio. A destra, la bellezza.

Non ho resistito e, attratto dall’orrore, ho fotografato.

Poi si è fatta l’ora, e sono entrato a vedere lo spettacolo.

Quando Peppe Barra ha intonato la tammurriata nera ho capito.

Quel viso, per metà bellissimo e per l’altra sfigurato, è Napoli.

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