Se Giorgio Bocca fosse nato a Napoli nel 1980

Mettiamo che nel 1980, a Napoli, un uomo di nome Gennaro Bocca abbia avuto un figlio maschio, e abbia deciso impunemente di chiamarlo Giorgio.

Giorgio Bocca.

L’uomo è un operaio dell’Olivetti di Arcofelice, Pozzuoli. Qui è nato l’embrione del primo personal computer, e qui Adriano Olivetti, e il grande scrittore Paolo Volponi, hanno disegnato, in faccia al mare flegreo, la fabbrica dal volto umano.

Gennaro Bocca ha assemblato tutta la vita macchine da scrivere, e il figlio, a furia di battere su quei tasti, all’età di tredici anni, comincia a dire a tutti che vuole fare il giornalista.

Si chiama Giorgio Bocca, è nato a Napoli, vive a Pozzuoli, ha tredici anni, è figlio di operaio, e nel 1993 decide che vuole fare il giornalista. Lo dice a tutti, e un po’ gli ridono dietro.

“Ti chiami Giorgio Bocca e vuoi fare il giornalista? E meno male che non ti chiami Totò Riina”, commentò lo zio Franco, fratello della madre, che aveva una edicola a Napoli e che, per questo, tutti chiamavano “giurnalista”, cioè quello che vende i giornali.

Il piccolo Giorgio si tiene stretto il suo sogno. Anzi, la clamorosa omonimia lo gasa. Si sente quasi un predestinato.

Quando i suoi amici giocano a calcio lui fa la telecronaca a bordo campo.

A sedici anni, Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, decide di fare il passo. Scrive una lettera ad un caporedattore di un grande giornale. Si firma solo Giorgio, senza il cognome.

Viene convocato nel giro di due settimana. Il caporedattore gli fa visitare la redazione, lo porta in tipografia, nelle stanze circolari come giostre. Lui ne è inebriato. Ma quando chiede di lavorare lì, l’uomo sorride e gli dice “sei troppo giovane, questo è un grande giornale. Fai diciotto anni, un poco di esperienza coi giornalini della scuola, e poi ne parliamo”.

Solo questo gli doveva dire.

Giorgio non torna nemmeno a casa che già bussa al portone di un mensile locale. Chiede di scrivere. Gli dicono, va bene, proviamo, scrivi un articolo al mese su quello che succede nelle scuole della città.

Lui comincia, il primo articolo è da buttare. Glielo fanno ripetere cinque volte. “Questo è un temino, ragazzo”, gli dicono, “tu devi scrivere le notizie mica i pensierini”. Alla sesta volta, Giorgio capisce e scrive il pezzo giusto. In pagina, senza nemmeno una modifica.

Quando esce, Giorgio compra sei copie del giornale in sei edicole diverse. Non ci può credere che su ognuna ci sia il suo nome, e il suo articolo.

Dopo un paio di mesi, il direttore del giornale gli affida la cronaca nera, e poi la politica. Giorgio arriva a firmare pure otto pezzi a numero. “Il ragazzo è bravo – disse il direttore al papà -. Ma fosse veramente un predestinato?”

Ai genitori importava una cosa sola: il diploma, e poi la laurea.

“Ti devi istruire”, gli dicevano. Ma Giorgio Bocca pensava solo ai giornali. Ragionava, ormai, come una notizia. Ogni cosa che vedeva la scomponeva, e la ricostruiva con i fatti nelle prime cinque righe.

Quando compì diciotto anni si ripresentò dal caporedattore del grande giornale. Aveva gli articoli in una cartella e disse: “eccomi qua, sono maggiorenne e ho fatto esperienza. Posso scrivere?”.

Gli disse di sì.

Quando tornò a casa, però, non potè festeggiare. L’Olivetti, dopo varie trasformazioni, stava per chiudere, e il padre sarebbe finito in cassa integrazione. Due anni di sussidi, uno scivolo verso la pensione anticipata, quattro soldi in busta paga, e lo scippo del lavoro che avrebbe incupito l’uomo fino a svuotarlo.

Giorgio Bocca, per far contento il padre, si iscrisse all’Università. Ma contemporaneamente cominciò a lavorare col grande giornale. Prima con le brevi, senza firma. Poi qualche pezzo di piede, per la cronaca provinciale. Poi la prima apertura, in cronaca locale. Poi, di più. I primi tempi era lui a segnalare le notizie, e poi ad andare sul posto, e poi a tornare a casa, a scrivere, a mandare l’articolo via fax e, se a tarda ora, dettarlo ai dimafoni.

I pezzi glieli pagavano 15mila lire l’uno, ne riusciva a fare anche venti al mese. Erano 300mila lire, e per uno studentello non era male. A lui non sembrava vero di potersi pagare almeno la benzina nella macchina, e qualche libro all’università.

Dopo due anni divenne pubblicista. L’impegno col giornale era più intenso. Ogni tanto andava in redazione. Lo chiamavano abusivo. Non doveva rispondere al telefono, e se arrivava qualche pezzo grosso doveva dire che era di passaggio, era venuto a portare il pezzo.

Si sedeva alla scrivania col cappotto, e non se lo poteva togliere.

Ma lavorava felice perchè i tasti, i trilli, le gabbie grafiche, l’odore dell’inchiostro, le foto, l’equilibrio perfetto di un titolo, gli gonfiavano il cuore.

Nel Duemila entrò l’euro. Giorgio Bocca aveva vent’anni. Le sue 300mila lire divennero 150 euro, e ci metteva solo la benzina. In due anni di università aveva fatto solo cinque esami. La sua testa era altrove.

“Ma mi laureo, non ti preoccupare. Non è meglio che mi faccio pure una gavetta per il lavoro, papà?”.

Il padre non aveva più molta forza. Passava le giornate stancamente davanti alla tv.

Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, con la passione per i giornali, nel 2005 festeggiò cinque anni da pubblicista e quasi 500 articoli pubblicati. Aveva scritto di tutto, dallo sport agli omicidi di camorra. Tre volte in prima pagina. Solo col cognome, e col rimando all’interno, ma, oh, cazzo, era la prima pagina.

Ma l’assunzione?

Ogni tanto qualcuno gli diceva di tenere duro, di avere carattere, che ce l’avrebbe fatta.

Ogni tanto qualcun altro gli diceva “leva mano, qua sta tutto in crisi, non ci saranno assunzioni”.

Qualche altro ancora gli diceva “vattene a Milano, lavori gratis per un po’ ma ti fai conoscere e quelli ti prendono, qui non hai futuro”.

Uno gli disse “fatti uno di questi master che stanno uscendo, diventi praticante, poi fai l’esame da professionista, uno stage, e stai con un piede dentro”.

Lui alzava sempre le spalle. Soldi per master o per soggiorni fuori, in famiglia, non ce n’erano. Di levare mano non se ne parlava.

Diceva a se stesso che con il suo amore per il mestiere ce l’avrebbe fatta. Prima o poi.

Ebbe un primo cedimento quando il giornale fece una batteria di assunzioni. “Una infornata”, dissero.

C’erano tre belle ragazze, oggettivamente. Più giovani di lui, e che avevano cominciato dopo, e che non si capiva bene come fossero state scelte. C’era il figlio di un imprenditore. Uno a cui non si poteva dire di no. E c’erano tre figli di giornalisti: i padri erano andati in pensione e avevano preso i figli.

E io? Cominciò a chiedersi Giorgio Bocca, nato a Napoli, nel 1980.

Decise di andare a parlare col direttore, e si stupì quando questi mostrò di non conoscerlo. “Lavori con noi?”, chiese. Nientedimeno?

Ci rimase così male che decise, per qualche giorno, di non farsi sentire.

Lo chiamarono e lui si fece negare. Poi tornò, e lo cazziarono. “Che si scompare così?”.

Fu felice del rimprovero.

Seguì il consiglio di un collega anziano, che aveva fatto causa anni addietro ed era stato assunto. Cercò di collaborare anche con altri giornali. E intensificò gli esami all’università.

Si laureò a 28 anni, nel 2008, e il giorno stesso della tesi, tornò a casa a scrivere. Avevano ammazzato uno e c’era mezza pagina da riempire.

Intanto, nel grande giornale, con cui scriveva ormai da otto anni, guadagnando, quando andava bene, 300 euro al mese, era cambiato il direttore. Decise di anticiparlo, e andarci a parlare prima che prendesse confidenza.

Portò parte degli articoli e si vestì di faccia tosta. “Ma tu davvero ti chiami Giorgio Bocca? Ma vedi un po’”, disse il direttore. Che, dopo averlo ascoltato, disse: “ti tengo presente, magari per qualche sostituzione. Poi vediamo. Tu sei professionista?”.

“No, sono pubblicista”.

“Buonanotte. Come ti piglio? Devi diventare professionista, noi assumiamo solo professionisti”.

Il fatto è che per diventare professionisti devi essere assunto da un giornale. Ma un giornale ti assume solo se sei professionista. Il praticantato non lo fanno fare quasi più a nessuno.

Che inferno. Poteva fare una vertenza anche lui. Ma ci voleva la spinta. Poteva fare un master. Ma ci volevano almeno 15mila euro l’anno.

Non poteva fare un cazzo. Cioè, poteva fare l’unica cosa che sapeva: lavorare, lavorare, lavorare.

Riprese le sue collaborazioni. Scriveva quasi tutti i giorni. Trecento, quattrocento euro al mese. Si mise a dare lezioni private, la sera, un paio d’ore, per arrotondare. Poi scriveva temari per le case editrici, e tesi di laurea a pagamento.

Alcuni mesi arrivava a 800 euro.

Al giornale ripresero le assunzioni. Solo a tempo determinato. Solo professionisti. Qualcuno lo era diventato coi master, qualcun altro con le tv private, dove è più facile. Ma ci vuole la conoscenza.

“Guagliò, ma tu che vuoi fare?”, gli disse laconico il padre quando Giorgio Bocca fece trent’anni.

“Che voglio fare, papà?”

“Eh, che vuoi fare?”

“Voglio fare il giornalista”.

” E nun è cosa, figlio mio. Stai faticando da quando eri piccirillo e manco ti sistemi”.

“Papà ma io più di lavorare, di fare il mio dovere, che devo fare?”

“Ma sei sicuro che sei bravo? Forse non sei capace”.

“Mi fanno i complimenti, mi dicono che sono bravo, continuamente. Mi pubblicano tutto senza cambiare niente, e mi chiedono di scrivere. Se non fossi capace mi avrebbero preso a calci in culo, no?”

“E allora si vede che non è destino, trovati un’altra cosa”.

Giorgio insistette un altro anno. Poi il padre morì, all’improvviso, d’infarto, e la mamma rimase sola con la pensione minima. In quegli stessi giorni lo zio edicolante decise di ritirarsi e propose al nipote di prendere l’edicola in gestione.

“Volevi fare il giornalista? E fai ‘o giurnalist”.

Fu così che Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, piegò il suo sogno in quattro e si sistemò nel piccolo chiosco al centro di Napoli. Sempre in mezzo ai giornali, stava.

Il destino si era sbagliato di poco.

Non è mica da questi particolari

Non aveva ancora compiuto diciotto anni, quando, a Torino, il mister della prima squadra, arrivò al campo di allenamento della Primavera e si mise a seguire la partitella sulla panchina con l’allenatore delle giovanili.

Era piccolo e magro, una camicia bianca infilata nei pantaloni, si chiamava Giovanni Trapattoni e seguì fisso e serio alcuni giocatori.

Alla fine, il mister scese negli spogliatoi e chiamò a sé tre ragazzi.

Uno si chiamava Gabriele Pin, era nelle giovanili dal 1975. Un centrocampista bassino e tenace, timido. Un altro si chiamava Ivano Marilio, arrivato a Torino da appena un anno, un terzino destro robusto che menava legnate anche a ragazzini.

Il terzo era Ennio.

Ai tre, il mister disse: “voi questa estate venite in ritiro con noi”.

Fu così che Ennio Montana, nell’estate del millenovecentosettantotto, all’età di diciassette anni, entrò nel giro della prima squadra, che si chiamava Juventus, e aveva appena vinto lo scudetto. I tre ragazzi della Primavera furono messi in stanza insieme, e tenuti come separati dal resto del gruppo. Si allenavano, correvano, ma nelle partitelle, per esempio, dovevano starsene buoni, in disparte, non esagerare, tenere dentro la gamba.

Erano poco più di una sagoma e dovevano guardare, ascoltare, imparare, tacere. Ennio si trovò a correre e ad allenarsi con gli stessi calciatori che aveva appeso alle pareti della sua stanza, con i poster a colori usciti dal Guerin Sportivo. Lui ne aveva tre, ovviamente tutti della Juventus perchè non si potevano tenere poster di altre squadre. Il primo era quello di Roberto Bettega che in quella foto si alzava in volo davanti alla porta e andava a colpire un pallone altissimo con la testa brizzolata. Il secondo, a seguire, accanto sulla testata del letto, quello di Franco Causio, che volava piccolo e astuto, sulla fascia, con i suoi baffi neri. Il terzo, rigido come una sentinella, nell’angolo di due pareti, quello di Romeo Benetti, con le braccia incrociate al petto e i baffetti rossi.

Ritrovarseli in campo, vicini, fu curioso. Sembravano più magri, avevano anche una distanza strana, come un alone di superiorità.

Quell’estate, il mister portò Ennio in panchina durante il turno estivo di Coppa Italia, senza però farlo entrare. Tempo un mese arrivò la chiamata di Trapattoni anche per il campionato. Due volte in ritiro prima di due incontri, senza però convocarlo per la partita.

La terza volta, finalmente, in panchina anche in campionato.

Giancarlo Alessandrelli, il portiere in seconda, gli fece segno di sedere accanto a lui. Lo accolse con un sorriso larghissimo e una manata nei capelli. Era stato anche lui nelle giovanili della Juventus, e da qualche anno era in prima squadra. Ma non era mai entrato in campo. Il portiere titolare si chiamava Dino Zoff.

Per tutto l’incontro Ennio sperò di non essere chiamato. Aveva un tremore alle ginocchia, un formicolio insistente, che se si fosse alzato si sarebbe sbriciolato al suolo. Per fortuna il mister, pur avendolo guardato un paio di volte, non gli fece alcun cenno.

Passarono due mesi, Ennio tornò a giocare nella Primavera, e quasi ci aveva tolto il pensiero. Trapattoni, però, tornò a chiamarlo.

Era dicembre. A Torino arrivò l’Inter. In panchina, Alessandrelli gli allargò il solito sorriso e lui andò a sedersi lì vicino. Sette minuti e Baresi segnò, facendo infuriare Trapattoni, che cominciò a inveire contro tutta la difesa. Per mezz’ora si sentirono solo urla, fischi e parolacce. Poi Boninsegna pareggiò e il mister si placò fino all’intervallo. Nel secondo tempo, la partita si trascinò stanca, fino a che Trapattoni non lanciò due occhiate di seguito a Ennio, facendolo sussultare di paura.

Pochi minuti dopo si sentì un urlo a centrocampo. Una maglia bianconera si attorcigliò al prato, rotolando. Il numero dieci si era fatto male da solo, al ginocchio, girandolo mentre correva all’indietro.

Il mister puntò l’indice contro Ennio e gli fece segno di prepararsi. Dovette ripeterlo due volte perché Ennio rimase immobile, incredulo. Alla seconda volta, scattò in piedi, tolse la tuta e andò a correre sulla linea del fallo laterale, sperando che fosse un falso allarme e che non ci fosse bisogno di entrare. Invece il titolare, zoppicando e bestemmiando, si avviò verso la panchina. Il mister fece segno ad Ennio di avvicinarsi. “E’ il tuo momento, ragazzo. Devi tenere la posizione rigidamente, non salire e non scendere, ferma la palla, guardati intorno, devi piazzarla dove sai tu, nel punto giusto. Ti chiedo solo questo. Ferma la palla e lancia. Mi raccomando”.

Gli diede una pacca sulla spalla e lo lanciò in campo.

Era il millenovecentosettantotto quando il calciatore Ennio Montana, all’età di diciassette anni, debuttò in serie A. In quel momento, con l’orecchio incollato ad una radio, mister Cardiello, il suo primo allenatore, lanciò un urlo di gioia; vicino a lui, il portiere del palazzo dove aveva abitato da bambino, piangeva.

Il papà, invece, no.

Il papà era morto un’ora e mezza prima che lui entrasse in camp. Di infarto, sul divano, davanti alla tv, senza riuscire a dire nemmeno aiuto, mentre la mamma era in cucina a lavare i piatti del pranzo domenicale.

Era morto in silenzio, come a rispettare, anche sul finale, la sua invocazione alla tranquillità. La mamma se ne rese conto dopo due ore, quando gli portò il caffè e vide il marito con la bocca aperta e la testa piegata di lato.

Così quando Ennio telefonò a casa per dire “hai visto, papà,  ce l’ho fatta, sono entrato in serie A”, non rispose nessuno.

(appunti per un romanzo che forse scriverò, o forse sto scrivendo, o forse ho finito).

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