Non aveva ancora compiuto diciotto anni, quando, a Torino, il mister della prima squadra, arrivò al campo di allenamento della Primavera e si mise a seguire la partitella sulla panchina con l’allenatore delle giovanili.
Era piccolo e magro, una camicia bianca infilata nei pantaloni, si chiamava Giovanni Trapattoni e seguì fisso e serio alcuni giocatori.
Alla fine, il mister scese negli spogliatoi e chiamò a sé tre ragazzi.
Uno si chiamava Gabriele Pin, era nelle giovanili dal 1975. Un centrocampista bassino e tenace, timido. Un altro si chiamava Ivano Marilio, arrivato a Torino da appena un anno, un terzino destro robusto che menava legnate anche a ragazzini.
Il terzo era Ennio.
Ai tre, il mister disse: “voi questa estate venite in ritiro con noi”.
Fu così che Ennio Montana, nell’estate del millenovecentosettantotto, all’età di diciassette anni, entrò nel giro della prima squadra, che si chiamava Juventus, e aveva appena vinto lo scudetto. I tre ragazzi della Primavera furono messi in stanza insieme, e tenuti come separati dal resto del gruppo. Si allenavano, correvano, ma nelle partitelle, per esempio, dovevano starsene buoni, in disparte, non esagerare, tenere dentro la gamba.
Erano poco più di una sagoma e dovevano guardare, ascoltare, imparare, tacere. Ennio si trovò a correre e ad allenarsi con gli stessi calciatori che aveva appeso alle pareti della sua stanza, con i poster a colori usciti dal Guerin Sportivo. Lui ne aveva tre, ovviamente tutti della Juventus perchè non si potevano tenere poster di altre squadre. Il primo era quello di Roberto Bettega che in quella foto si alzava in volo davanti alla porta e andava a colpire un pallone altissimo con la testa brizzolata. Il secondo, a seguire, accanto sulla testata del letto, quello di Franco Causio, che volava piccolo e astuto, sulla fascia, con i suoi baffi neri. Il terzo, rigido come una sentinella, nell’angolo di due pareti, quello di Romeo Benetti, con le braccia incrociate al petto e i baffetti rossi.
Ritrovarseli in campo, vicini, fu curioso. Sembravano più magri, avevano anche una distanza strana, come un alone di superiorità.
Quell’estate, il mister portò Ennio in panchina durante il turno estivo di Coppa Italia, senza però farlo entrare. Tempo un mese arrivò la chiamata di Trapattoni anche per il campionato. Due volte in ritiro prima di due incontri, senza però convocarlo per la partita.
La terza volta, finalmente, in panchina anche in campionato.
Giancarlo Alessandrelli, il portiere in seconda, gli fece segno di sedere accanto a lui. Lo accolse con un sorriso larghissimo e una manata nei capelli. Era stato anche lui nelle giovanili della Juventus, e da qualche anno era in prima squadra. Ma non era mai entrato in campo. Il portiere titolare si chiamava Dino Zoff.
Per tutto l’incontro Ennio sperò di non essere chiamato. Aveva un tremore alle ginocchia, un formicolio insistente, che se si fosse alzato si sarebbe sbriciolato al suolo. Per fortuna il mister, pur avendolo guardato un paio di volte, non gli fece alcun cenno.
Passarono due mesi, Ennio tornò a giocare nella Primavera, e quasi ci aveva tolto il pensiero. Trapattoni, però, tornò a chiamarlo.
Era dicembre. A Torino arrivò l’Inter. In panchina, Alessandrelli gli allargò il solito sorriso e lui andò a sedersi lì vicino. Sette minuti e Baresi segnò, facendo infuriare Trapattoni, che cominciò a inveire contro tutta la difesa. Per mezz’ora si sentirono solo urla, fischi e parolacce. Poi Boninsegna pareggiò e il mister si placò fino all’intervallo. Nel secondo tempo, la partita si trascinò stanca, fino a che Trapattoni non lanciò due occhiate di seguito a Ennio, facendolo sussultare di paura.
Pochi minuti dopo si sentì un urlo a centrocampo. Una maglia bianconera si attorcigliò al prato, rotolando. Il numero dieci si era fatto male da solo, al ginocchio, girandolo mentre correva all’indietro.
Il mister puntò l’indice contro Ennio e gli fece segno di prepararsi. Dovette ripeterlo due volte perché Ennio rimase immobile, incredulo. Alla seconda volta, scattò in piedi, tolse la tuta e andò a correre sulla linea del fallo laterale, sperando che fosse un falso allarme e che non ci fosse bisogno di entrare. Invece il titolare, zoppicando e bestemmiando, si avviò verso la panchina. Il mister fece segno ad Ennio di avvicinarsi. “E’ il tuo momento, ragazzo. Devi tenere la posizione rigidamente, non salire e non scendere, ferma la palla, guardati intorno, devi piazzarla dove sai tu, nel punto giusto. Ti chiedo solo questo. Ferma la palla e lancia. Mi raccomando”.
Gli diede una pacca sulla spalla e lo lanciò in campo.
Era il millenovecentosettantotto quando il calciatore Ennio Montana, all’età di diciassette anni, debuttò in serie A. In quel momento, con l’orecchio incollato ad una radio, mister Cardiello, il suo primo allenatore, lanciò un urlo di gioia; vicino a lui, il portiere del palazzo dove aveva abitato da bambino, piangeva.
Il papà, invece, no.
Il papà era morto un’ora e mezza prima che lui entrasse in camp. Di infarto, sul divano, davanti alla tv, senza riuscire a dire nemmeno aiuto, mentre la mamma era in cucina a lavare i piatti del pranzo domenicale.
Era morto in silenzio, come a rispettare, anche sul finale, la sua invocazione alla tranquillità. La mamma se ne rese conto dopo due ore, quando gli portò il caffè e vide il marito con la bocca aperta e la testa piegata di lato.
Così quando Ennio telefonò a casa per dire “hai visto, papà, ce l’ho fatta, sono entrato in serie A”, non rispose nessuno.
(appunti per un romanzo che forse scriverò, o forse sto scrivendo, o forse ho finito).
e poi? non lasciarci così……
Buon lavoro, allora… non vedo l’ora che cominci a scrivere questo romanzo o che sia terminato o che lo mandi in stampa
Bello, ben scritto, finisci il romanzo!
molto bello, complimenti tienici aggiornati