Se Giorgio Bocca fosse nato a Napoli nel 1980

Mettiamo che nel 1980, a Napoli, un uomo di nome Gennaro Bocca abbia avuto un figlio maschio, e abbia deciso impunemente di chiamarlo Giorgio.

Giorgio Bocca.

L’uomo è un operaio dell’Olivetti di Arcofelice, Pozzuoli. Qui è nato l’embrione del primo personal computer, e qui Adriano Olivetti, e il grande scrittore Paolo Volponi, hanno disegnato, in faccia al mare flegreo, la fabbrica dal volto umano.

Gennaro Bocca ha assemblato tutta la vita macchine da scrivere, e il figlio, a furia di battere su quei tasti, all’età di tredici anni, comincia a dire a tutti che vuole fare il giornalista.

Si chiama Giorgio Bocca, è nato a Napoli, vive a Pozzuoli, ha tredici anni, è figlio di operaio, e nel 1993 decide che vuole fare il giornalista. Lo dice a tutti, e un po’ gli ridono dietro.

“Ti chiami Giorgio Bocca e vuoi fare il giornalista? E meno male che non ti chiami Totò Riina”, commentò lo zio Franco, fratello della madre, che aveva una edicola a Napoli e che, per questo, tutti chiamavano “giurnalista”, cioè quello che vende i giornali.

Il piccolo Giorgio si tiene stretto il suo sogno. Anzi, la clamorosa omonimia lo gasa. Si sente quasi un predestinato.

Quando i suoi amici giocano a calcio lui fa la telecronaca a bordo campo.

A sedici anni, Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, decide di fare il passo. Scrive una lettera ad un caporedattore di un grande giornale. Si firma solo Giorgio, senza il cognome.

Viene convocato nel giro di due settimana. Il caporedattore gli fa visitare la redazione, lo porta in tipografia, nelle stanze circolari come giostre. Lui ne è inebriato. Ma quando chiede di lavorare lì, l’uomo sorride e gli dice “sei troppo giovane, questo è un grande giornale. Fai diciotto anni, un poco di esperienza coi giornalini della scuola, e poi ne parliamo”.

Solo questo gli doveva dire.

Giorgio non torna nemmeno a casa che già bussa al portone di un mensile locale. Chiede di scrivere. Gli dicono, va bene, proviamo, scrivi un articolo al mese su quello che succede nelle scuole della città.

Lui comincia, il primo articolo è da buttare. Glielo fanno ripetere cinque volte. “Questo è un temino, ragazzo”, gli dicono, “tu devi scrivere le notizie mica i pensierini”. Alla sesta volta, Giorgio capisce e scrive il pezzo giusto. In pagina, senza nemmeno una modifica.

Quando esce, Giorgio compra sei copie del giornale in sei edicole diverse. Non ci può credere che su ognuna ci sia il suo nome, e il suo articolo.

Dopo un paio di mesi, il direttore del giornale gli affida la cronaca nera, e poi la politica. Giorgio arriva a firmare pure otto pezzi a numero. “Il ragazzo è bravo – disse il direttore al papà -. Ma fosse veramente un predestinato?”

Ai genitori importava una cosa sola: il diploma, e poi la laurea.

“Ti devi istruire”, gli dicevano. Ma Giorgio Bocca pensava solo ai giornali. Ragionava, ormai, come una notizia. Ogni cosa che vedeva la scomponeva, e la ricostruiva con i fatti nelle prime cinque righe.

Quando compì diciotto anni si ripresentò dal caporedattore del grande giornale. Aveva gli articoli in una cartella e disse: “eccomi qua, sono maggiorenne e ho fatto esperienza. Posso scrivere?”.

Gli disse di sì.

Quando tornò a casa, però, non potè festeggiare. L’Olivetti, dopo varie trasformazioni, stava per chiudere, e il padre sarebbe finito in cassa integrazione. Due anni di sussidi, uno scivolo verso la pensione anticipata, quattro soldi in busta paga, e lo scippo del lavoro che avrebbe incupito l’uomo fino a svuotarlo.

Giorgio Bocca, per far contento il padre, si iscrisse all’Università. Ma contemporaneamente cominciò a lavorare col grande giornale. Prima con le brevi, senza firma. Poi qualche pezzo di piede, per la cronaca provinciale. Poi la prima apertura, in cronaca locale. Poi, di più. I primi tempi era lui a segnalare le notizie, e poi ad andare sul posto, e poi a tornare a casa, a scrivere, a mandare l’articolo via fax e, se a tarda ora, dettarlo ai dimafoni.

I pezzi glieli pagavano 15mila lire l’uno, ne riusciva a fare anche venti al mese. Erano 300mila lire, e per uno studentello non era male. A lui non sembrava vero di potersi pagare almeno la benzina nella macchina, e qualche libro all’università.

Dopo due anni divenne pubblicista. L’impegno col giornale era più intenso. Ogni tanto andava in redazione. Lo chiamavano abusivo. Non doveva rispondere al telefono, e se arrivava qualche pezzo grosso doveva dire che era di passaggio, era venuto a portare il pezzo.

Si sedeva alla scrivania col cappotto, e non se lo poteva togliere.

Ma lavorava felice perchè i tasti, i trilli, le gabbie grafiche, l’odore dell’inchiostro, le foto, l’equilibrio perfetto di un titolo, gli gonfiavano il cuore.

Nel Duemila entrò l’euro. Giorgio Bocca aveva vent’anni. Le sue 300mila lire divennero 150 euro, e ci metteva solo la benzina. In due anni di università aveva fatto solo cinque esami. La sua testa era altrove.

“Ma mi laureo, non ti preoccupare. Non è meglio che mi faccio pure una gavetta per il lavoro, papà?”.

Il padre non aveva più molta forza. Passava le giornate stancamente davanti alla tv.

Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, con la passione per i giornali, nel 2005 festeggiò cinque anni da pubblicista e quasi 500 articoli pubblicati. Aveva scritto di tutto, dallo sport agli omicidi di camorra. Tre volte in prima pagina. Solo col cognome, e col rimando all’interno, ma, oh, cazzo, era la prima pagina.

Ma l’assunzione?

Ogni tanto qualcuno gli diceva di tenere duro, di avere carattere, che ce l’avrebbe fatta.

Ogni tanto qualcun altro gli diceva “leva mano, qua sta tutto in crisi, non ci saranno assunzioni”.

Qualche altro ancora gli diceva “vattene a Milano, lavori gratis per un po’ ma ti fai conoscere e quelli ti prendono, qui non hai futuro”.

Uno gli disse “fatti uno di questi master che stanno uscendo, diventi praticante, poi fai l’esame da professionista, uno stage, e stai con un piede dentro”.

Lui alzava sempre le spalle. Soldi per master o per soggiorni fuori, in famiglia, non ce n’erano. Di levare mano non se ne parlava.

Diceva a se stesso che con il suo amore per il mestiere ce l’avrebbe fatta. Prima o poi.

Ebbe un primo cedimento quando il giornale fece una batteria di assunzioni. “Una infornata”, dissero.

C’erano tre belle ragazze, oggettivamente. Più giovani di lui, e che avevano cominciato dopo, e che non si capiva bene come fossero state scelte. C’era il figlio di un imprenditore. Uno a cui non si poteva dire di no. E c’erano tre figli di giornalisti: i padri erano andati in pensione e avevano preso i figli.

E io? Cominciò a chiedersi Giorgio Bocca, nato a Napoli, nel 1980.

Decise di andare a parlare col direttore, e si stupì quando questi mostrò di non conoscerlo. “Lavori con noi?”, chiese. Nientedimeno?

Ci rimase così male che decise, per qualche giorno, di non farsi sentire.

Lo chiamarono e lui si fece negare. Poi tornò, e lo cazziarono. “Che si scompare così?”.

Fu felice del rimprovero.

Seguì il consiglio di un collega anziano, che aveva fatto causa anni addietro ed era stato assunto. Cercò di collaborare anche con altri giornali. E intensificò gli esami all’università.

Si laureò a 28 anni, nel 2008, e il giorno stesso della tesi, tornò a casa a scrivere. Avevano ammazzato uno e c’era mezza pagina da riempire.

Intanto, nel grande giornale, con cui scriveva ormai da otto anni, guadagnando, quando andava bene, 300 euro al mese, era cambiato il direttore. Decise di anticiparlo, e andarci a parlare prima che prendesse confidenza.

Portò parte degli articoli e si vestì di faccia tosta. “Ma tu davvero ti chiami Giorgio Bocca? Ma vedi un po’”, disse il direttore. Che, dopo averlo ascoltato, disse: “ti tengo presente, magari per qualche sostituzione. Poi vediamo. Tu sei professionista?”.

“No, sono pubblicista”.

“Buonanotte. Come ti piglio? Devi diventare professionista, noi assumiamo solo professionisti”.

Il fatto è che per diventare professionisti devi essere assunto da un giornale. Ma un giornale ti assume solo se sei professionista. Il praticantato non lo fanno fare quasi più a nessuno.

Che inferno. Poteva fare una vertenza anche lui. Ma ci voleva la spinta. Poteva fare un master. Ma ci volevano almeno 15mila euro l’anno.

Non poteva fare un cazzo. Cioè, poteva fare l’unica cosa che sapeva: lavorare, lavorare, lavorare.

Riprese le sue collaborazioni. Scriveva quasi tutti i giorni. Trecento, quattrocento euro al mese. Si mise a dare lezioni private, la sera, un paio d’ore, per arrotondare. Poi scriveva temari per le case editrici, e tesi di laurea a pagamento.

Alcuni mesi arrivava a 800 euro.

Al giornale ripresero le assunzioni. Solo a tempo determinato. Solo professionisti. Qualcuno lo era diventato coi master, qualcun altro con le tv private, dove è più facile. Ma ci vuole la conoscenza.

“Guagliò, ma tu che vuoi fare?”, gli disse laconico il padre quando Giorgio Bocca fece trent’anni.

“Che voglio fare, papà?”

“Eh, che vuoi fare?”

“Voglio fare il giornalista”.

” E nun è cosa, figlio mio. Stai faticando da quando eri piccirillo e manco ti sistemi”.

“Papà ma io più di lavorare, di fare il mio dovere, che devo fare?”

“Ma sei sicuro che sei bravo? Forse non sei capace”.

“Mi fanno i complimenti, mi dicono che sono bravo, continuamente. Mi pubblicano tutto senza cambiare niente, e mi chiedono di scrivere. Se non fossi capace mi avrebbero preso a calci in culo, no?”

“E allora si vede che non è destino, trovati un’altra cosa”.

Giorgio insistette un altro anno. Poi il padre morì, all’improvviso, d’infarto, e la mamma rimase sola con la pensione minima. In quegli stessi giorni lo zio edicolante decise di ritirarsi e propose al nipote di prendere l’edicola in gestione.

“Volevi fare il giornalista? E fai ‘o giurnalist”.

Fu così che Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, piegò il suo sogno in quattro e si sistemò nel piccolo chiosco al centro di Napoli. Sempre in mezzo ai giornali, stava.

Il destino si era sbagliato di poco.

47 pensieri riguardo “Se Giorgio Bocca fosse nato a Napoli nel 1980”

  1. Posso dire che hai un po’ stancato con la storia dei racconti alternativi? Dopo Stefano Lavori, anche Giorgio Bocca? Nei prossimi anni avrai un sacco da scrivere, visto che i grandi personaggi moriranno uno dopo l’altro.

    1. Certo che lo puoi dire, ci mancherebbe. Se ti ho stancato, puoi sempre smettere di leggermi. Rispetto ai personaggi che moriranno, e di cui potrò scrivere, mi dispiace doverti dire che non hai colto il senso di questi piccoli racconti. Il personaggio è un puro pretesto per dire altro.
      Oltretutto su questo blog, che è uno spazio di libera espressione, ci sono decine di post. E solo due sono quelli che tu chiami “racconti alternativi” su personaggi morti.
      Saluti.

      1. Infatti se ti leggo è perché scrivi anche altre cose interessanti. Prendilo come un invito a non prendere il vizio del “se tizio fosse nato a Napoli”. A presto e buon lavoro!

  2. nemmeno ne avesse scritti mille… e se anche lo avesse fatto, se fossero tutti scritti così, io ci metterei la firma!

  3. Bello! Però i dimafonisti alla fine degli anni Novanta… mi sa che ti sei fatto prendere un po’ dal romanticismo 😉

  4. Sottolineare le “differenze al contorno” non fa mai male.

    Conosco tante persone che possono “solo lavorare” come il Giorgio Bocca di questo post, e che non hanno nessuna alternativa (tipo lo zio “giurnalist”).

    Lo devono fare per la sopravvivenza (per pochi soldi), e non hanno il diritto nemmeno di sentirsi “sfortunati” (“nun t’é lamentà, c’ sta’ chi à fatic’ nun à tene proprio”).

    Come si dice… “o napulitan se fa sicc ma nun mor”

    I sogni e le speranze? Solo per pochi fortunati…

    1. Vero, Alessandro. In fondo il senso di questi racconti è proprio questo. Ci sono molti talenti mortificati da condizioni esterne proibitive. Persone che meriterebbero di più, e che non riescono e tuttavia si attrezzano come possono. Questo non vuol dire che non ci siano colpe individuali, o che sia sempre e solo colpa del contesto. Ci mancherebbe. Sarebbe la solita lagna di chi, generalmente, “chiagne e fotte”. Però non si può negare che i problemi ci siano, e spesso mortifichino le individualità che meritano. E’ grosso modo la stessa riflessione del post su Steve Jobs. E’ utile parlarne, secondo me.

  5. Mi piace proprio tanto il tuo stile… Perché non scrivi un libro di queste storie alternative? Qui restano confinate al mondo del blog e del web (che non è mica poco!), però io penso che meriti una platea ben più ampia… @ Lorenzo Tondi: Con la storia di Stefano Lavori non mi sembra ci sia nulla in comune, se non il titolo ed il significato di fondo…

  6. Grazie, Laura. Un libro è in uscita. Sarà in libreria dal 17 gennaio. Si intitola “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli” (Sperling & Kupfer) ed è la storia lunga (200 pagine) di Stefano Lavori e Stefano Vozzini.
    Nei prossimi giorni, in prossimità dell’uscita, ne parlerò.

      1. Ciao, il 17 gennaio uscirà la versione lunga, romanzata, della storia di Stefano Lavori. Il libro si intitolerà “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”. Sarà pubblicato da Sperling & Kupfer. Anche in versione e-book.

  7. ma quando mai a napoli non si può fare il giornalista? chi ha detto questo fatto? il solito vittimismo napoletano…da Napoli escono giornalisti a non finire con padri che capiscono le ambizioni dei figli, non ci stanno solo papà zappatori e calzolai, anzi quasi non ce ne sono più, ergo non è tutto rose e fiori, ma dire che a napoli non esce un giornalista è ridicolo.. Escono Presidenti della Repubblica figurati se non escono giornalisti.

    1. Ciao, Bruno. Non ho mai detto che da Napoli non escono giornalisti. Ne conosco di bravissimi, oggi, che lavorano duro. E anche la tradizione ne è piena: Joe Marrazzo, Gino Palumbo, Antonio Ghirelli, Gianni De Felice. Solo per fare qualche nome. Io dico solo che il settore, negli ultimi anni, ha qualche problema a valorizzare i suoi talenti. Possiamo parlare dei problemi senza essere accusati di fare vittimismo? O dobbiamo dire che va tutto bene?
      Saluti e grazie per l’attenzione.

  8. Caro Antonio, sono qui (sul tuo Blog) proprio per caso ed ho letto la tua bella storia.
    Mi ha fatto pensare. E questo è già un importante risultato (almeno per me)…
    Poi ho letto i commenti.
    Io ho un pò di anni in più rispetto ai vostri. (56)
    Automaticamente ho cercato nella memoria altri racconti analoghi e ho provato ad immaginare la continuazione della storia…
    …in fondo il protagonista ha una edicola al centro di Napoli. E’ un bel punto di partenza. Un punto di osservazione strategico per chi cerca storie da raccontare, niente male. Tra la gente, quella vera, in una città viva, oggettivamente unica.
    Ho pensato ad Erri de Luca che da giovane faceva il muratore ed ha scritto perciò – come nessuno potrà mai – pagine imperdibili sul tufo, la nostra pietra madre.
    Camilleri poi, comincia a scrivere i suoi romanzi straordinari sulla cinquantina … e così via …
    Insomma. Scrivi bene, e sei molto, molto giovane.
    alias: i tempi sono quello che sono ma ci sono state epoche ben più dure.
    Io penso che, nonostante tutto, bisogna guardare avanti con fiducia e “faticare” con passione.
    Il lavoro e la “capa tosta” pagano… sempre.
    e la vita cambia in un attimo … come la primavera, che scoppia d’un tratto ad aprile dopo mesi di silenziosa incubazione…
    buon lavoro e buona fortuna

    1. Ciao, Francesco, grazie del commento. Ho lavorato qualche anno a Pozzuoli, col Mattino (non sono così giovane) e ricordo una persona col tuo nome e cognome che faceva l’assessore, non so se a Pozzuoli o Bacoli. Se ne parlava molto bene. Se sei tu sono onorato della tua attenzione. Io non sono affatto pessimista. Sono convinto che abbiamo grandi risorse, dentro e fuori di noi. Tuttavia, i problemi esterni ci sono ed è giusto parlarne, secondo me. Per capirli, e magari provare a risolverli.
      Saluti, e grazie.

  9. Non originale, banalotto, disfattista e pieno di luoghi comuni. Antonio, il mondo è grande, milioni di persone viaggiano in modi assurdi per inseguire un sogno; mi dispiace ma quelli che si lamentano della città in cui sono (dando a questo la colpa dei propri fallimenti) e non se ne vanno non li capisco.. se a Napoli Stefano Lavori e Giorgio Bocca avrebbero fatto questa “brutta fine” ed è impossibile realizzarsi, credo che rimanere sia da stupidi.

  10. Dai, è un po’ disfattista… ci si può sempre spostare e ritornare. Capisco quello che vuoi trasmettere è la mentalità molto da ‘status quo’ , ma penso le cose lentamente stiano cambiando. Non credo davvero sia così semplice.
    Comunque a rileggerti, di tanto in tanto ritorno. Saluti dai marinai di Vongole&Merluzzi!

  11. Penso che potremmo riprendere un qualsiasi Tizio o Caio in una qualsiasi città italiana, e dire che avrebbe comunque fatto la stessa fine. E probabilmente anche se fosse nato nel 1990. Anzi, noi nati dopo il 90 forse siamo i veri disperati del non-lavoro, dell’instabilità e della disperazione. I ragazzi della mia generazione non hanno neanche più il sogno in se, ce lo decapitano sul nascere. “tanto, certi mestieri, oggi non si possono più fare.” “Non t’iscrivere a Filosofia, da lì escono solo ottimi centralinisti.”
    Non credo sia il caso di accusare uno stato, una città o una generazione. Credo ci sia solo bisogno di credere di poter cambiare qualcosa, cambiare quello che non va. Senza scappare via. E il primo passo, è parlare di ciò che accade, e mettere tutti davanti alla realtà nuda e cruda. E la realtà difficilmente è banale. E non mi sembra neppure tanto disfattista.

  12. Giorgio Bocca (di Napoli) un giorno incontrò una frase sul diario di un amico sognatore:
    “Se insisti e persisti,
    Raggiungi e conquisti!”
    In quel momento ebbe l’illuminazione geniale e capí che la sua vita non era al capolinea. Che c’è sempre un modo per non gettare la spugna guardando all’altezza dei muri davanti ed alla propria voglia di scavalcarli.
    Giorgio decise di intraprendere studi di psicologia motivazionale e cominciò a collaborare con siti internet come http://www.miglioramento.com per comunicare, tra la vendita di un giornale e quella di una rivista, che se non hai raggiunto un obiettivo è solo perchè non hai studiato abbastanza tutti gli elementi dello scenario.
    Ci sono diverse intellligenze, e diverse sensibilità, pensava Giorgio.
    E capí che nelle università tradizionali e nei contesti pessimistici degli ambienti degradati si condivide quell’individualismo sfrenato che è la vera origine di ogni fallimento.
    Per fortuna c’è Internet, strumento democratico e meritocratico che mette in evidenza il valore e che toglie ogni alibi a chi cerca ancora il proprio futuro nei meccanismi decisi da qualcuno che, probabilmente, non ha sudato il posto che occupa.

  13. La storia di ciascuno di noi è una formidabile combinazione di casualità che ci rende unici! Detto questo, certamente dove sei nato (città, ma anche famiglia, contesto in generale) incide moltissimo su quello che diventerai: se Totò fosse nato a Torino magari sarebbe diventato un metalmeccanico; se Sofia Loren fosse nata in uno sperduto paesino della Nuova Zelanda forse sarebbe diventata una pastorella; se Luigi Sorbillo fosse nato in California avrebbe aperto una catena di fast-food; se Pino Daniele fosse nato in Missouri sarebbe diventato un rapper; se Cannavaro fosse nato in Islanda sarebbe diventato capitano della nazionale islandese ma non avrebbe mai alzato la coppa del mondo; se Masaniello fosse nato nobile sarebbe diventato un oppressore del popolo e non un paladino dei suoi diritti…
    Mica nascere a Napoli è per forza motivo di svantaggio… 😉
    Che ne dite, se Gandhi fosse nato a NY sarebbe diventato una rockstar? 😀

  14. Lorenzo Tondi :
    Posso dire che hai un po’ stancato con la storia dei racconti alternativi? Dopo Stefano Lavori, anche Giorgio Bocca? Nei prossimi anni avrai un sacco da scrivere, visto che i grandi personaggi moriranno uno dopo l’altro.

    Caro Lorenzo, i grandi personaggi moriranno uno dopo l’altro evidentemente perché il mondo, ma l’Italia soprattutto, si sta riempiendo di piccoli personaggi, di quelli che non lasciano il segno e quando lo lasciano è una cicatrice non “un segno”. Il tuo commento mi ha dato lo spunto per un post sul mio blog sui piccoli personaggi di cui è piena l’Italia in questi anni.
    Bravo Antonio.

  15. grazie, soprattutto per quello che hai detto su come sia difficile-impossibile diventare giornalista professionista (14 anni come corrispondente contrattualizzato, seguivo 4 comuni, tutto dalla cronaca nera in poi; ho anke esperienze tv e direzione riviste, anke istituzionali ecc.: non è servito a niente, ma nessuno ci crede)

  16. In altre parole, chi nasce a Napoli è destinato a fallire, per un motivo o per l’altro (prima Stefano Lavori, ora Giorgio Bocca junior). L’analisi è corretta ma il “fattore Napoli” è spesso irrilevante e tirarla in ballo risulta abbastanza forzato.
    Bella serie di articoli, che immagino continuerà, ma non ne condivido la premessa.

    1. Non sarei così ultimativo. I miei personaggi falliscono. Ma c’è anche chi riesce. Di certo nascere a Napoli crea qualche problema in più, di cui credo sia utile parlare.

  17. che tristezza questa storia, non è ironica non fa pensare è solo triste. giorgio bocca era e resterà sempre un grandissimo giornalista. E AMAVA il sud. solo vallo a spiegare a chi si sofferma solo sulla superficie. daniela esposito

    1. Cara Daniela, Giorgio Bocca, da Cuneo, non era per niente un grande giornalista e non amava il sud. La storia di Giorgio Bocca da Napoli è tristemente uguale a tanti ex (e non ex) giovani giornalisti che a Napoli sono stati (e continuano ad essere) sfruttati. Se non l’hai vissute certe esperienze non puoi capirle. Purtroppo la vita è fatta anche di occasioni e a Napoli come in tutto il sud di occasioni ce ne sono meno che altrove. Non è autocommiserazione, solo realismo. E chi dice che la risposta è andare via, dimentica che per andare via occorrono condizioni (economiche e familiari) che non tutti possono permettersi.
      A proposito di Giorgio Bocca, da Cuneo, bisogna scavare proprio nel profondo dei suoi scritti per fare emergere l’amore per il sud…

      1. Che stupidaggine, oserei dire persino un insulto gratuito. Ma tu chi sei per affermare una cosa del genere? Sei una grande giornalista per caso?
        Ma per favore, se poi le tue affermazioni si riferiscono al libro Napoli siamo noi, allora ho capito….

  18. E’ amaro, ma è la realtà. E figurarsi per un diplomato/a.
    Un piccolo appunto, anzi una piccola aggiunta: alla fabbrica dal volto umano, se non sbaglio, ha contribuito anche Ottiero Ottieri con “Donnarumma all’assalto”.
    Sarò tra i primi a comprare il tuo libro. E lo sapevo che non l’avresti dato alla Mondadori. Auguri, Antò.
    P.S. La figuraccia della Isoardi sui napoletani, poche mattine fa, conferma la validità dei tuoi giudizi.

  19. Questo post non ha capo ne coda. Sei molto bravo, leggo con piacere i tuoi post, quelli che proprio non mi sono piaciuti sono questo e l’altro di Steve Jobs.
    Saluti

  20. forse è questa la differenza tra il sogno italiano e quello di altri paesi …è sempre solo una soluzione di compromesso che al massimo premia l’impegno di una persona ma tende a reprimere la sua voglia di esprimersi, gli trova una collocazione e lo sistema, ma lo tiene sotto senza mai dargli l’opportunità di emergere. chiaramente sto parlando delle storie a “lieto fine”….qui mi sembra che per un posto da giornalaio, che ti permette di vivere, ci sarebbe una fila di fior di giornalisti disposti a farlo

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: