Io mi sono laureato oltre i ventotto anni e sono, senza alcun dubbio, uno sfigato.
Mi sono perso in tanti di quei pensieri. E poi avevo il vizio dell’autonomia. Ho smesso di chiedere soldi a casa a venti anni. Me li guadagnavo da me. Pochi, ma buoni. E poi mi piaceva giocare a pallone, andare sott’acqua, bere birra, andare al cinema, scrivere.
Studiavo il mondo, mentre studiavo i libri.
E ogni tanto facevo un esame.
Sono indubbiamente uno sfigato, in tutte le accezioni possibili di questo termine. Ho perfino la panza.
Il mio papà è un poliziotto. La mia mamma una casalinga.
Il ventisette del mese, mio padre prendeva lo stipendio e lo dava a mia mamma, che lo infilava nel primo cassettone della camera da letto, sotto i lumi della nonna. Mio padre si teneva qualcosa per la benzina, le sigarette, e il quotidiano, perché anche mio padre aveva un vizio, quello di leggere il giornale tutti i giorni.
Mia mamma, dal cassettone, ha tirato ogni mese della nostra vita i soldi per il mutuo, per la spesa, per i vestiti, per le bollette, per le tasse, per i giocattoli, per i libri scolastici, e perfino per la villeggiatura.
E risparmiava pure per comprare i Bot.
Ho mangiato spesso carboidrati, da bambino. E si vede, oggi, da adulto. Mia mamma le chiamava le quattro P. Pane, pasta, patate e pizza. Lei impastava farina, lievito e acqua calda. Cucinava con poco. Due soldi e si mangiava.
Siamo cresciuti in una magnifica dignità. Mi sembrava di essere ricco.
Ma sono indubbiamente uno sfigato. Anche perché da quando mi sono laureato (110, eh) nessuno mi ha mai chiesto se lo fossi.
Mai.
Nemmeno una volta.
Dopo la laurea, per aggiungere sfiga a sfiga, ho preso anche un Master. Centodieci e lode. Ma non sono mai andato a ritirare la pergamena. Manco un certificato.
Sono passati un po’ di anni e non ho mai avuto il piacere di dirlo, che ho un master.
Ogni volta che ho chiesto un lavoro, la prima domanda non è stata sulla laurea, ma “a chi appartieni?”.
Non così diretta, certo. Ma il senso è sempre stato quello. E quando dicevo “a nessuno”, mi hanno guardato davvero come uno sfigato.
Uno sfigato laureato.
L’uscita del viceministro Martone, essendo io un ex studente fuoricorso che si è laureato oltre i ventotto anni, non mi ha offeso. Ho capito quello che voleva dire, e forse aveva anche una punta di ragione. E’ assurdo che l’Università sia un parcheggio, e che i ragazzi vi stazionino anni e anni, in attesa di chissà cosa.
Ma da un uomo di governo mi aspetterei che, di fronte ai tanti fuoricorso, si interrogasse sulla complessità, e non se ne uscisse con gli slogan, e le banalità.
Dietro gli studenti universitari, dietro i ragazzi, c’è un mondo di sogni, di bisogni, di progetti, di difficoltà, di ostacoli, e anche di demotivazioni, di stanchezze interiori, di dinamiche familiari. E la vicenda andrebbe letta, in controluce, sullo sfondo di un mercato del lavoro precario, di una università ridotta ad esamificio, di prospettive assenti, e di motivazioni fragili.
Invece è più comodo coniare slogan, alla Brunetta, e guadagnarsi due grammi di comoda notorietà.
A proposito, pensandoci bene, non vi sembra che il vero sfigato sia chi, per conquistare una pagina di giornale, deve sparare cazzate?