Falò della nuova Napoli

Ieri sera. Tarda sera. Mi ritrovo a passare per piazza Garibaldi. Quella della stazione centrale. Il punto di approdo. Il porto di ferro, la barriera d’ingresso della città di Napoli.

Faccio quelle indecifrabili rotatorie per trovare la direzione giusta.

Lo scenario è desolante ma è sempre così intorno a tutte le stazioni ferroviarie. Come se quei binari che portano fuori e dentro non potessero che attrarre l’umanità più disperata.

Al secondo rondò di cartoni e lamiere, però, devo stringere gli occhi, perchè mi si infila nella visuale il fuoco di un falò.

E’ alto, vivo.

Guardo bene, e intorno ci sono sagome femminili su tacchi alti. Saltellano sulle gambe, come se ballassero. Sembra un sabba, un rito esoterico. Cinque streghe. Ma sono solo bambine. Basta avvicinarsi un po’ per vedere volti limpidi e figure acerbe. Non so dirlo con certezza. Ma non avranno avuto più di sedici anni. Microgonne, calze color carne, giubbotti di pelle, con le mani allungate sul fuoco, e il collo in una torsione verso file di macchine che ruotavano intorno come api sul miele.

Ogni tanto qualcuna saliva su un’auto. E spariva nel buio di un vicolo.

Prostitute, probabilmente straniere, probabilmente minorenni, intorno ad un fuoco alto, a piazza Garibaldi, nel cuore di Napoli, sulla porta di Napoli.

Alla curva successiva, un altro fuoco.

Poi un altro ancora.

Era mezzanotte, e al centro della piazza della stazione centrale di Napoli c’erano tre falò con almeno una ventina di prostitute, probabilmente straniere, probabilmente minorenni, mentre alcuni turisti, giovanissimi anche loro, trascinavano trolley e zaini, e taxi imbarazzati portavano via gli ultimi arrivi della giornata.

Mi ha impressionato molto l’immagine di questa Napoli che riaccoglie nel suo ventre i falò delle prostitute. Ho avuto la sensazione di uno spaventoso arretramento. I margini che mangiano pezzi di città.

A poca distanza da quei falò c’è un commissariato di Polizia. E ogni tanto girava per la piazza una volante. Un giro innocente, una perlustrazione un po’ indifferente. Stanca. La volante superava il codazzo di auto in fila accanto ai falò, come se lì non stesse succedendo nulla.

Mi ha impressionato l’assuefazione. Il falò con le prostitute minorenni che si confondeva con lo sfondo e diventava quasi un elemento naturale di una Napoli che arretra. Che peggiora visibilmente.

Eppure abbiamo una rivoluzione in corso. Anzi, una rivoluzione già fatta.

Dov’è?

Devo essermi distratto.

Il sindaco arancione è in carica da circa 200 giorni. Non poteva certo risolvere, in così poco tempo, problemi tanto strutturati da sembrare fossili nella roccia.

Ma visto che parla di rivoluzione, forse bisognerebbe farlo passare da piazza Garibaldi, una di queste sere, e mostrargli quei falò. Oppure a via Marina, nelle buche. Oppure in certe periferie desolate dove dopo le dieci di sera ci sono solo sparuti gruppi di ragazzi appoggiati ai muri, nel buio, come ombre. Oppure in alcuni quartieri dove le regole sono quelle scritte dagli abitanti più aggressivi. Oppure su un pullman, un R2, nelle ore di punta, con i sedili scollati, l’autista che fuma, le gocce di pioggia che cadono dalle lamiere, i finestrini che non si chiudono. Oppure a Santa Lucia, dove i parcheggiatori ti chiedono due euro per non bucarti le ruote o rigarti le portiere, e tu puoi denunciarli, certo, rovinarti la serata e tirarti una sana questione di principio, ma con chi, se a quell’ora non ti risponde nessuno nemmeno al 113 mentre a te t’hanno già gonfiato solo se metti mano al cellulare?

Come si concilia questa idea della nuova Napoli con la realtà di una Napoli che riaccende perfino i falò delle prostitute?

Io lo so, come si concilia. Attaccando chi ne parla.

La prima legge della rivoluzione: se parli di un problema, tu sei il problema.

La seconda legge della rivoluzione: l’ottimismo risolve i problemi, il disfattismo li acuisce, anzi li crea.

La terza legge della rivoluzione: il cambiamento c’è, chi non lo vede è in malafede.

La quarta legge della rivoluzione: Napoli è una città straordinaria e chi segnala i problemi vuole male a Napoli.

Potrei continuare almeno fino a dieci. Ve le risparmio, perchè sono abbastanza annichilito da questo teatrino.

Come quelli che hanno una grave malattia ma non vogliono saperlo, Napoli sale le scale di corsa, si gira e dice “vedi? Sto bene! Ma quale malattia”.

Mi succede in questi giorni, anche con l’ampia discussione che si è aperta sul mio libro. Io sostengo che qui i fattori esterni condizionano gravemente la realizzazione di idee e talenti. Come risposta diretta o indiretta, ogni tanto esce qualcuno che tira fuori la storia di un napoletano che ce l’ha fatta.

Come a dire, sono tutte cazzate! Se hai idee e palle, ce la fai anche qui.

Ovviamente chi tira fuori la storia non ne chiarisce mai del tutto i contorni. Non ci dice dove ha preso i soldi quello lì, se aveva capitali di famiglia, come si è districato nella burocrazia, tra le banche, tra gli uffici pubblici, se ha pagato tangenti ai pubblici poteri, o ha ceduto al racket della camorra. Sono cose che non contano.

Conta che ce l’ha fatta. Come se i fattori fossero neutri rispetto all’obiettivo.

Per uno che, per circostanze personali, forse casuali, forse occasionali, per famiglie inserite che proteggono o per spregiudicatezza estrema, riesce a combinare qualcosa, ce ne sono mille che franano, ce ne sono mille che se ne vanno, ce ne sono mille che si stancano, ce ne sono mille messi in croce. Quei mille e mille e mille e mille potrebbero essere la vera risorsa.

Perchè non ne serve uno, per la rivoluzione, ne servono tanti.

No, questo non si dice.

Non si può dire.

Non si può parlare dei problemi.

Non si parla di malattie.

Noi non abbiamo malattie.

Noi stiamo bene.

Qui tutto va bene.

Siamo sani.

Facciamo le scale di corsa. A due a due.

Stiamo bene.

E chi parla di malattie, porta sfiga.

E’ una ciucciuettola.

Che simpatia, che grandezza, che forza questa città.

E chi ci ammazza a noi?

I falò con le prostitute, poi, sono pure belli da vedere.

Questa Italia

Mi sento come un pugile suonato. Sarà stato il trittico San Valentino/Celentano/farfallina ma mi sento immerso in un bidone d’idiozia, e qualcuno ha pure chiuso il tappo, perché non vedo la luce, sento solo una puzza acida e a volte penso che sia io.

E’ colpa mia.

Non sono un moralista.

Sono per la libertà di pensiero, avendone uno, però. E per tutte le libertà, e per tutte le nudità. Soprattutto quelle femminili.

Non mi scandalizza la farfalla della soubrette, esibita sotto lo spacco, e vivisezionata dalle argute moviole del web.

Non mi scandalizza il cachet di Celentano, non più di quanto possano scandalizzarmi quelli di Totti, o di Minzolini.

Non mi scandalizzano le sue cazzate ad orologeria.

Non mi scandalizza nemmeno che un italiano su due passi una o più serate letargiche davanti alla tv.

Ognuno ha ben il diritto di fare quello che gli pare.

Non mi scandalizza niente, a dire il vero.

E’ che sono stanco.

L’altra sera sentivo un peso in mezzo al petto. La voglia di un lamento. Poi ho pensato che, in fondo, le cose mi vanno bene. Ho un libro che è arrivato perfino in classifica e che, finalmente, giri per librerie e lo trovi, e se non lo trovi è perché ha venduto tutta la prima tiratura ed è in ristampa. Ho richieste di presentazioni da mezza Italia, e giro per interviste, e incasso complimenti, e mi gratifico.

Mi succede quello che mai mi era successo da quando scrivo.

Eppure l’altra sera volevo lamentarmi. Da solo. In qualche modo. Ma non ho trovato le parole. Ho scritto e riscritto. Dove lo metto questo lamento? Su twitter o su facebook? Magari mando un sms ad un amico. Anzi, no, mo’ chiamo mia mamma e la affliggo. No, scrivo un tweet, anzi uno stato. Ma niente.

Era il lamento di un sordomuto, un rantolo. Come un pugno all’incontrario. Da dentro verso fuori.

Ho desistito e non ho scritto nulla. Ma quel lamento strozzato, come uno starnuto abortito, mi è rimasto addosso, e adesso mi viaggia dentro. Una malinconia del futuro. Non so espellerlo. Me lo palleggio negli occhi, come una lacrima secca.

E’ la gente, certe mosse, questa insopportabile furbizia.

E’ questa Italia.

Un posto fesso

Insomma, non se ne esce. Dopo i bamboccioni, i fannulloni, gli sfigati, arriva la sveglia di Monti.

“Datevi una mossa, il posto fisso è noioso”. A chi parlava, il presidente? Ai sessantenni? Ai cinquantenni?

Non certo alla mia generazione.

Io il posto fisso non so nemmeno cosa sia. Noi ci accontentiamo anche di un posto fesso. Da sempre.

A tre mesi, a sei mesi. A due anni. A quindici giorni. Con contratto. Senza contratto. Con quale contratto? Partita Iva, cococo, cocopro, gestioni separate, l’extra a nero, anzi tutto a nero, non ti ammalare, non vorrai mica avere figli, niente mutui, case condivise a quarant’anni, come studenti, ah gli studenti, sfigati i fuoricorso, ma che mi laureo a fare?

Quando sento certe uscite mi chiedo se io vivo su Marte, oppure ci vivono loro. E non mi riferisco solo ai politici. Ma anche a certi sindacalisti, o certe categorie.

Ho avuto la stessa sensazione quando si parlava di pensioni. Levate di scudi perchè qualcuno non poteva più andarci a 57-58 anni e doveva andarci a 65. Dio mio!

Che cos’è il posto fisso? Che cos’è la pensione?

Più o meno lo stesso straniamento lo vivo con l’articolo 18.

Mai visto. Cos’è l’articolo 18?

La sensazione è quella di vivere in un mondo impazzito, un corto circuito permanente. Si parla un linguaggio antico per questioni tutte moderne. Si fissano slogan per vicende complesse. Si banalizza, e non si semplifica.

E’ tutto così volgare, e io ho una gran voglia di menare un bel calcio in culo a tutto e riprendermi la dignità.

Quanti pezzi ho strappato alla mia dignità per rendermi “flessibile”, e tenermi al mondo?

Apro una parentesi personale: in queste settimane sto facendo un curioso giro di radio e tv. Sono stato a Rainews 24, con Corradino Mineo. E poi dalla gentilissima Paola Saluzzi, su Sky cielo. E poi a Rapporto Carelli, su Skytg24. E da Nicoletti, su radio24. E su radiotre. E su radio Capital. E altro ancora.

Mi chiamano per parlare del mio libro, un romanzo connesso all’attualità , che si interfaccia bene alle discussioni su lavoro e crisi.

Mi chiedono opinioni, punti di vista, mi ascoltano.

Poi chiudo il collegamento e torno nella mia melma personale. La mia precarietà. Il patema di chiedere a qualcuno – un giornale, un direttore, un caporedattore, un telefono muto, una mail senza risposta – se vuole un tuo articolo.

L’imbarazzo di proporsi in continuazione, provando ad essere brillante, vivace, sprint, mentre ti sei rotto abbastanza le palle.

Stare lì a chiedere spazi, e non trovare più le parole. Il desiderio che, per una volta, sia un giornale a chiamare te e a dirti “neh, coglione, abbiamo letto quello che scrivi, non ci sembra male, vuoi collaborare?”.

Ho detto collaborare, mica essere assunto.

Macchè.

Se non hai un padrino, un compare, un familiare, un amico, un passepartout, e mica ti chiamano.

Ah, no. Ti chiamano per fare l’ospite, per dire la tua, per sentirti. Per elogiarti. Ma nessuno che si giochi una scommessa su quella specie di talento che tutti ti riconoscono e nessuno si piglia.

Nessuno che faccia una mossa.

Scendi dal palcoscenico, si spengono i riflettori, e poi ti siedi, da solo, alla tua scrivania. Pensi a chi potresti proporre, oggi, un articolo. E cosa potresti inventarti per fare uscire un pezzo e guadagnarti una ventina di euro (lordi).

Oppure fai due conti. Magari per un po’ passo. Anzi, no. Batti il ferro, mi dicono. Batto, batto. Come le puttane, no?

Penso che questa palude puzzolente ci abbia tolto, fondamentalmente, una cosa. La dignità.

Si può avere ancora un po’ dignità, presidente Monti, o è un lusso che non possiamo permetterci?

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