Ho avuto paura di svegliarti

Sono mille i suicidi a causa della crisi economica, in Italia. Anziani, giovani, padri di famiglia, disperati per l’improvvisa mancanza di reddito. Trenta i suicidi da gennaio tra i piccoli imprenditori nel nord est. Erano la locomotiva d’Italia. Amavano le loro piccole aziende familiari più della loro vita. E quando sono fallite, è finita anche la vita.

G. C. era un artigiano, aveva una ditta di lavori edili, e debiti col fisco per 100mila euro. L’altra mattina ha scritto poche parole alla moglie ed è uscito. E’ andato a darsi fuoco nel cortile dell’Agenzia delle entrate di Bologna.

«Caro amore sono qui che piango, stamattina sono uscito un po’ presto, volevo salutarti ma dormivi così bene, ho avuto paura di svegliarti».

Non è morto. Ha ustioni su tutto il corpo. Forse ce la fa. Ce la deve fare. Ce la dobbiamo fare.

per fanpage

Nuovi fascisti

Giancarlo Caselli è un magistrato che negli anni Settanta ha rischiato la vita per combattere il terrorismo, e negli anni Novanta è sceso in Sicilia a lottare contro la mafia. Oggi coordina una delicata inchiesta sui disordini in Val di Susa, e ha indagato alcuni militanti del movimento No Tav. L’Anpi è l’associazione nazionale dei partigiani, nata dai partecipanti alla Resistenza. Ha centinaia di sedi in tutta Italia e tiene viva la memoria sulla Liberazione dal nazifascismo.

Ieri, un gruppo di giovani del centro sociale «Il Cantiere», ha fatto irruzione a Palazzo Marino, a Milano, con le bandiere del movimento No Tav, cercando di impedire la presentazione del libro di Caselli, a cui partecipava un partigiano dell’Anpi di 89 anni.

Lo ha fatto srotolando uno striscione demenziale (“Non usate la memoria dei vecchi partigiani contro i partigiani di oggi”). Per fortuna sono stati sgomberati in pochi minuti. Al partigiano vero e al magistrato antimafia è stato consentito di parlare.

A questi ragazzi dico una cosa sola. Chi toglie la parola a un partigiano è un fascista.

 

(per Fanpage)

Siamo tutti pazzi

Nel bosco del Castagnaro, a Quarto, in provincia di Napoli, capitai per caso.

Un giornale mi ci mandò per un abuso edilizio. Mi trovai di fronte una radura di alberi e spine che mi conquistò con le sue ombre silenziose a due metri dal caos. L’abuso c’era. Lo fotografai, scrissi un pezzo, lo sequestrarono, poi ci fu il condono.

Adesso è una bella villa.

Cos’ha di particolare il Castagnaro?

Due cose.

La prima è che si tratta di un magnifico e improvviso squarcio di terra nera e flegrea e alberi ed erba e odori di campagna, miracolosamente e solo in parte, sopravvissuto alla nostra contagiosa cattiveria.

La seconda è che il Commissario per l’eterna emergenza rifiuti della Campania ha pensato di farci una discarica. Monnezza, sì. Riempire di rifiuti una cava in mezzo al bosco, e poi metterci un tappo.

Ma siamo pazzi?

Sì, siamo tutti pazzi.

Quelli che va tutto bene.

Lessi tempo fa, non ricordo dove, che Roberto Saviano, nelle prime settimane dopo l’uscita di Gomorra, prima di essere minacciato, andava in giro a presentare il suo libro, e agli appuntamenti, ad un certo punto, inevitabilmente, si alzava qualcuno e gli diceva due cose.

La prima é che quello che aveva scritto era esagerato. La seconda è che gettava fango su Napoli solo per guadagnare, in modo furbo, soldi e notorietà.

Saviano raccontava di restare ogni volta allibito. Come si può negare la ferocia della camorra, o addirittura la sua esistenza? E come si può trasformare chi compie, con le parole, un’azione di denuncia civica in un furbetto che cerca soldi e successo?

Capisco la sua amarezza.

Nel mio piccolo, fatte tutte le proporzioni, vivo una esperienza simile. Da quando ho pubblicato il libro sullo Steve Jobs napoletano giro molto per presentazioni. Raccolgo pareri, storie, molte identificazioni. Ma, immancabilmente, arriva, ad un certo punto, qualcuno che chiede la parola per dire due cose.

La prima è che quanto scritto nel libro non è vero. La seconda è che parlare male dell’Italia e di Napoli è una furbata per fare soldi.

Io, ogni volta, benché ci sia abituato, ci resto male.

Come si può negare che in Italia esista un problema di accesso al credito per le imprese e soprattutto per i giovani senza spalle coperte dalle famiglie? Come si può negare che in Italia esista una questione legata all’erogazione, ritardata e clientelare, dei fondi pubblici di sostegno all’autoimpresa? Come si può negare che esista una burocrazia costosa e farraginosa? Come si può negare che esista un’emergenza legata alla corruzione dei pubblici poteri, che asfissia le attività economiche e taglia le gambe a chi prova a camminare sulle sue? Come si può negare che al Sud, in particolare, ci sia una presenza mafiosa che taglieggia quello che funziona e distrugge mercato e concorrenza? Come si può negare che tutti questi fattori, insieme, facciano del nostro Paese un magnifico esempio di patrimonio dilapidato, di occasioni perdute, di giovani in fuga, di uomini e donne dalle mille capacità e dalle pochissime opportunità?

Chi sostiene la tesi che non è vero nulla, aggiunge, in genere, il suo esempio.

Io ce l’ho fatta, dice. E come me anche altri.

Bene. Mi fa piacere. Ma se uno o qualcuno ce la fa significa che tutto va bene, che non ci sono problemi? Io credo di no.

C’è chi ce la fa, anche in condizioni difficili. È vero.

Siamo 60 milioni di abitanti e ci sono migliaia di imprese che reggono, per fortuna.

Ma questo non significa che non ci sia, in Italia, una grande questione sociale che riguarda la realizzazione del proprio talento, che riguarda i fattori che ho indicato sopra, e che disperde occasioni, valori e risorse.

L’esempio positivo va bene, è incoraggiante, è bello sentirlo.  A patto, però, che non pretenda di oscurare i problemi e chiudere la discussione.

In realtà chi si alza e porta l’esempio del suo successo ha spesso un sottinteso. Un non detto. Ce l’ho fatta perché invece di perdere tempo a lagnarmi, come voi, mi sono rimboccato le maniche.

Ecco, questo mi fa andare veramente in “freva”. La retorica del fare.

Mi piacerebbe, poi, andare ad indagare in quella storia. Vedere quante mazzette sono state pagate. Quante leggi impunemente violate. Quanti favori fatti alla politica. Quanti compromessi. Quanta spregiudicatezza. A quale prezzo, morale e sociale, corrisponde quel fantomatico fare?

Inutile chiederlo. Negherebbero. Puri e duri. I negazionisti non pagano tangenti, non sono taglieggiati dalla camorra, non sono asfissiati dalla burocrazia, non assumono raccomandati, sono finanziati senza garanzie, non hanno lavoratori a nero, pagano tasse e contributi e ce la fanno solo con le loro forze. Perché sono bravi, perché sono uomini del fare, perché non si lagnano, perché si rimboccano le maniche. Se tutti facessero come loro, invece di parlare dei problemi, non staremmo così.

Io penso, invece, che stiamo così anche per colpa loro. La negazione dei problemi conserva i problemi. L’idea del “volere è potere” cancella il peso delle questioni sociali e sposta colpevolmente la responsabilità solo sugli individui. La retorica delle maniche rimboccate insulta chi fallisce, dandogli la colpa. L’enfasi su chi riesce oscura la vera emergenza, che è quella della marea di persone che frana sui problemi, perché a volte sono drammatici, asfissianti, irrimediabili.

Gente che perde, si perde, ci fa perdere tutti.

Anche chi si illude che la società sia un bel gioco individuale.

Chi non si rassegna è ottuso

Mi capita spesso, durante le presentazioni del mio libro, in queste settimane, di incontrare scolaresche.

Gli insegnanti, preoccupati del tono un po’ pessimistico del mio romanzo, mi chiedono di dare parole di speranza.

Io non ne ho.

Indosso una maschera politicamente corretta, però, e faccio finta. Provo a balbettare qualcosa. Ma non sono convincente.

Mi dicono che un libro debba contenere una speranza, sempre. Altrimenti a che serve? Io penso che un libro possa anche, semplicemente, disperarti. Del resto, svuotarsi di inutili speranze è una bonifica. Una pulizia necessaria.

Quante inutili speranze coltiviamo in questo chiacchiericcio ostinato sulla salvezza del sud?

Fateci caso: i cantori più attivi della speranza sono proprio quelli che lavorano alla vostra disperazione. Sono loro, che non vogliono sentire i problemi; che preferiscono il canto del positivo, il canto del fare, con il malinteso senso del non arrendersi mentre in realtà vogliono solo tenerti in ostaggio della loro falsa speranza.
Io rivendico, invece, il diritto ad arrendermi. E anche a disperare, dopo aver tanto sperato.

Penso questo quando vedo straordinari esempi della mia generazione perdere le forze e rassegnarsi. Hanno ragione. Come fai a non rassegnarti? Mi verrebbe da dire che chi non si rassegna è ottuso. Ma evito.

Faccio spesso un esempio: io ho frequentato le elementari in un garage, perché nel mio quartiere non c’era la scuola e il Comune fittò due sottoscala; poi ho fatto le medie in un container, perché venne il terremoto, la scuola divenne inagibile e ci sistemarono lì; poi ho fatto le superiori in una cucina, perché non c’era l’edificio scolastico e fu fittato un palazzo con gli appartamenti. A qualcuno toccò il salotto con il parato a fiori, a me la cucina, per la precisione il posto sotto il buco della cappa, con un’ansia pazzesca. Poi sono andato all’Università, e ho fatto lezione nei cinema. Perché non c’erano le aule. Mi sono laureato senza aver mai messo piede in una scuola.

Tornavo a casa e guardavo “la famiglia Bradford”, quei bei college americani con gli studenti che indossavano le felpe col cappuccio, e il campo di basket, le lavagne enormi, e le palestre. Mi chiedevo se quelle scuole esistessero davvero. Ho visto centinaia di compagni lasciare gli studi, abbandonare per strada. Una strage silenziosa.

Ma come posso, oggi, dargli torto?

Quella scuola non faceva nulla per trattenerci. Rimanere in quei banchi era da eroi. O da ottusi. Così questo territorio, questo Paese, non fa nulla per trattenerci.  Ci chiamano bamboccioni, sfigati, mammoni. Ci dicono che se tiriamo fuori le palle, ce la facciamo. Pensano di spronarci. In realtà ci insultano. Stanno dicendo, indirettamente, che se non ce la fai, è colpa tua.
Allora io me la prendo la colpa. Me la prendo tutta. Ma vi rendo la disperazione; mi ribello al vostro inutile buonismo, racconto i problemi, e non do speranze. E non ne prendo.
Disperiamoci, e quindi rivoltiamoci.

Pubblicato oggi su Comunicare il sociale.

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