Chi non si rassegna è ottuso

Mi capita spesso, durante le presentazioni del mio libro, in queste settimane, di incontrare scolaresche.

Gli insegnanti, preoccupati del tono un po’ pessimistico del mio romanzo, mi chiedono di dare parole di speranza.

Io non ne ho.

Indosso una maschera politicamente corretta, però, e faccio finta. Provo a balbettare qualcosa. Ma non sono convincente.

Mi dicono che un libro debba contenere una speranza, sempre. Altrimenti a che serve? Io penso che un libro possa anche, semplicemente, disperarti. Del resto, svuotarsi di inutili speranze è una bonifica. Una pulizia necessaria.

Quante inutili speranze coltiviamo in questo chiacchiericcio ostinato sulla salvezza del sud?

Fateci caso: i cantori più attivi della speranza sono proprio quelli che lavorano alla vostra disperazione. Sono loro, che non vogliono sentire i problemi; che preferiscono il canto del positivo, il canto del fare, con il malinteso senso del non arrendersi mentre in realtà vogliono solo tenerti in ostaggio della loro falsa speranza.
Io rivendico, invece, il diritto ad arrendermi. E anche a disperare, dopo aver tanto sperato.

Penso questo quando vedo straordinari esempi della mia generazione perdere le forze e rassegnarsi. Hanno ragione. Come fai a non rassegnarti? Mi verrebbe da dire che chi non si rassegna è ottuso. Ma evito.

Faccio spesso un esempio: io ho frequentato le elementari in un garage, perché nel mio quartiere non c’era la scuola e il Comune fittò due sottoscala; poi ho fatto le medie in un container, perché venne il terremoto, la scuola divenne inagibile e ci sistemarono lì; poi ho fatto le superiori in una cucina, perché non c’era l’edificio scolastico e fu fittato un palazzo con gli appartamenti. A qualcuno toccò il salotto con il parato a fiori, a me la cucina, per la precisione il posto sotto il buco della cappa, con un’ansia pazzesca. Poi sono andato all’Università, e ho fatto lezione nei cinema. Perché non c’erano le aule. Mi sono laureato senza aver mai messo piede in una scuola.

Tornavo a casa e guardavo “la famiglia Bradford”, quei bei college americani con gli studenti che indossavano le felpe col cappuccio, e il campo di basket, le lavagne enormi, e le palestre. Mi chiedevo se quelle scuole esistessero davvero. Ho visto centinaia di compagni lasciare gli studi, abbandonare per strada. Una strage silenziosa.

Ma come posso, oggi, dargli torto?

Quella scuola non faceva nulla per trattenerci. Rimanere in quei banchi era da eroi. O da ottusi. Così questo territorio, questo Paese, non fa nulla per trattenerci.  Ci chiamano bamboccioni, sfigati, mammoni. Ci dicono che se tiriamo fuori le palle, ce la facciamo. Pensano di spronarci. In realtà ci insultano. Stanno dicendo, indirettamente, che se non ce la fai, è colpa tua.
Allora io me la prendo la colpa. Me la prendo tutta. Ma vi rendo la disperazione; mi ribello al vostro inutile buonismo, racconto i problemi, e non do speranze. E non ne prendo.
Disperiamoci, e quindi rivoltiamoci.

Pubblicato oggi su Comunicare il sociale.

7 pensieri riguardo “Chi non si rassegna è ottuso”

  1. Caro Antonio,

    non è proprio un commento ma un pò di stupore ,non avevo collegato il tuo nome al tuo volto sentendo parlare del libro.Chi sono?ti ricordi i tempi di Dossier Magazine e di Nico Pirozzi?
    sono la tua ex collega di giornale nonchè di università …………….esame scritto di storia contemporanea con la Colarizzi?………………

  2. Se avessi letto questo post prima del 13 Febbraio 2011, data in cui è nato il mio Samuele, avrei probabilmente lasciato un commento a senso unico del tipo: “Descrizione perfetta. Hai ragione. Vaff… a tutti!”
    Eppure da quando ho un figlio le mie priorità sono mutate. Non mi interessa più “la colpa”.
    Vivo seguendo un principio enunciato da uno dei più grossi poeti contemporanei, R. Benigni:
    “Questo mondo non lo abbiamo ereditato dai nostri padri, ma preso in prestito dai nostri figli”
    Questo aforisma riassume perfettamente il mio stato d’animo. Sono (ri)obbligato a fare l’ottuso 🙂 … pertanto per concludere:
    Descrizione perfetta. Hai ragione. Ma con la fine della speranza (e della sua “carica rivoluzionaria” perfettamente descritta da Fromm) finisce tutto. Noi abbiamo il dovere di resistere e combattere per le future generazioni, e di credere che non siamo una minoranza, ma semplicemente una maggioranza disorganizzata (che forse è “molto peggio”… 🙂 ma non è la fine).
    Ciao Antonio e grazie… è davvero un piacere leggerti.

    1. sono d’accordo.
      Non mi conoscete ma leggo spesso questo blog.
      Da laureata in Economia e Commercio alla Federico II , con grandi prospettive scelsi di avere una famiglia e cosi’ venni tagliata fuori dal lavoro dipendente ma non mi sono lasciata andare ed oggi sono un imprenditrice con tre figli piccoli ,tanto stanca la sera ma piena di gioia quando mi baciano e mi coccolano i miei cuccioli .Spesso , lavorando per la Pubblica Amministrazione non vengo pagata ma se mi dicono :Chi te lo fa fare ?? mi arrabbio ,altre volte invece mi chiedono come resisto e c’è una sola risposta : I miei tre figli .
      Un augurio ad un giovane bravissimo papa’ pieno di speranza e allo scrittore Antonio Menna ,veramente molto bravo.

  3. “Ci dicono che se tiriamo fuori le palle, ce la facciamo. Pensano di spronarci. In realtà ci insultano”. E’ il passaggio che mi ha colpito di più. Lo condivido.

  4. Sono d’accordo con te che un libro non debba necessariamente avere la funzione sociale del “dare speranza”. Ma non è vero che nel tuo libro questa manchi. La speranza l’hai seminata. “Due anni dopo” Stefano Lavori continua ad essere ottuso. Nonostante le ferite e le ammaccature nell’anima, conserva il sogno. Non si arrende all’idea di dover rinunciare a prendersi in mano la vita. Il tuo protagonista è il prototipo dell’ottuso che preferisce continuare a vivere di illusioni. E capiamoci, per me fa bene. Il tempo delle disillusioni verrà anche per lui. Ma questo dev’essere un procedimento spontaneo, come scoprire che Babbo Natale non esiste. Dire “chi non si rassegna è ottuso” è un po’ come dire: “chi non ha 40 anni è un imbecille”. Ci arriveremo tutti, forse pure Stefano. Dacci il tempo.

  5. Da parte di un “Ottuso”, un grandissimo ” Ottuso ”

    Caro Antonio condivido tutto quello che scrivi,ho condiviso il Tuo primo post su Steve Jobs e mi sono letto tutto il Tuo libro in pochi giorni ( un record per me)
    Assolutamente non posso condividere la mancanza di speranza,è l’unica cosa che ci lega ad una vita normale.
    Qualche mese fa il figlio di un mio ex compagno di scuola ( doppi turni per tre anni alle medie superiori ) ha compiuto 18 anni e oltre ad invitare alla sua festa gli amici di scuola ha invitato anche qualche vecchio amico dei suoi genitori. Io ha notato che tutti i ragazzi presenti non avevano mai visto la nostra Terra senza montagne di monnezza,loro sono nati e cresciuti sempre in emergenza rifiuti. Quando gli parlo di Raccolta Differenziata,riduzione dei rifiuti e politiche ecocompatibili mi guardano come un folle,qualcuno di questi ragazzi abbozza anche un “…..ma stai flessciato??…..” ( non so preciso cosa significa ma sicuramente non è un complimento) ma io continuo a parlare,noi più anziani abbiamo il dovere di trasmettere agli altri la conoscenza,dire a tutti che cambiare è possibile.
    Ma in fondo Tu perchè hai scritto il libro?,per i soldi?, non ci credo proprio! Forse non vuoi ammetterlo ma anche Tu speri,sotto sotto,che qualcosa possa cambiare e se domani vai al Comune non trovi l’impiegato che ti sbriga la pratica ” per piacere ” ma semplicemente perche è arrivato il Tuo turno.

    Ciao, ci vediamo ad Ottaviano lunedì sera,spero che non Ti sbrighi velocemente perchè io faccio sempre tardi.
    MIMMO RUSSO

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