Poi esce il cuore

Sta girando molto la foto di un barista spagnolo che blocca la polizia e dà rifugio, nel suo locale, a decine di manifestanti inseguiti dalle cariche.

Tempo fa ricostruendo una storia realmente accaduta, provai a raccontarla così.

Mi piace ripubblicarla qui, adesso.

 

 

 

 

La Garbatella di Alvaro

 

 

“me la racconti questa storia?”

“lascia stare”

“perché?”

“non è più il tempo”

“ma io vorrei sentirla”

“e io non la voglio raccontare”

“e se insisto?”

“lo sai che non mi va”

“lo so”

“e allora non insistere”

“ma ogni tanto torna nei discorsi di tutti; l’altra sera alla villetta se n’è uscito uno dicendo che Genova non è niente e che non puoi sapere che cos’è la rivolta se non sai quella storia”

“ma lo voi capì che è finito il tempo, che era un altro mondo?”

“come la fai lunga, non sono manco quarant’anni. Era l’altro ieri”

“un altro mondo”

“senti, io voglio questa storia perché voglio scrivere un racconto”

“che vuoi scrivere?”

“un racconto”

“sarebbe?”

“tu racconti la storia a me e io la scrivo”

“e poi?”

“e poi la regaliamo alla memoria”

“mi fai sorridere”

“non dovresti”

“ti devo prendere sul serio?”

“non puoi tenere quella storia per te”

“ma se ne è parlato tanto”

“ma nessuno c’è stato dentro, e tu sei quella storia”

“quella storia non sono io, quella storia è la Garbatella”

“e raccontiamola”

“mi fai sorridere”

“non dovresti”

“e se te la racconto, che fai? Prendi appunti?”

“registro la tua voce”

“addirittura?”

“sì”

“e perché?”

“perché la memoria deve avere una voce”

“e allora prendi il registratore e vieni alla finestra”

“sì?”

“sì”

“sono pronto”

“lo vedi laggiù quello slargo sotto la scalinata che va verso il ponticello della vecchia ferrovia?”

“quello sotto piazza Brin?”

“sì”

“lo vedo”

“è cominciata lì. Ventisette maggio millenovecentosettanta. Il primo fu Marchetto, il figlio del lattaio”

“il commercialista?”

“esatto. Oggi ha lo studio qui di fronte. Allora avrà avuto dieci anni. Giocava a pallone con il fratello Gigi e due amici, i gemelli Lorìa”

“i nipoti della sora Mariella”

“sì. Giocavano a tirare i rigori quando videro arrivare una trentina di poliziotti. Era un intero plotone della ps, celerini. Avevano il manganello, il casco, lo scudo. Si schierarono in assetto. Davanti a tutti, uno in giacca con la fascia tricolore e un megafono. Urlò ai ragazzini di andare via. Loro li guardarono un po’ stralunati. Ma che vonno? Dalla finestra del lotto 54 arrivò un urlo. Se la stanno a piglià coi regazziniiiiiiiii. Quella voce corse terrorizzata lungo tutta la discesa, fino all’albergo, entrò nelle case, dalle finestre, scosse persiane, proprio come il vento. In quel momento Marchetto fece una cosa incredibile”

“cosa?”

“prese una pietra, la sollevò e la lanciò contro i poliziotti, beccando il casco di uno. Un gesto inutile, se ci pensi. Ma forte. Un ragazzino di dieci anni, trenta poliziotti schierati e questo ti lancia la pietra. Poi si gira verso gli altri e dice: ’scappamoooooooooo’. ”

“e la polizia?”

“la polizia non se l’aspettava, non sapeva che fare. Si guardarono tra loro e tutti guardarono il funzionario. Che facciamo, carichiamo?”

“caricarono?”

“no. Ognuno di quei poliziotti aveva qualche bambino a casa. Non caricarono. Trenta poliziotti dietro a quattro bambini lungo una scalinata. No, non caricarono. Ma salirono lentamente verso la piazza”

“per andare dove?”

“per entrare alla Garbatella, piazza Brin era un punto strategico. Stavano caricando gli studenti a San Paolo. Si erano riuniti lì, come sai, per il vertice Nato. Erano i tempi di Mao, del Vietnam, della Cambogia, e di Potere Operaio. Gli studenti si erano radunati a San Paolo per marciare verso il palazzo dei congressi e bloccare il vertice degli americani. Figuriamoci”

“cosa?”

“velleità”

“sogni”

“cazzate”

“ideali”

“avevano tempo da perdere e il soldo in tasca. Ma gli piaceva sentirsi grandi. Quando la polizia li caricò salirono alla Garbatella, si sparsero terrorizzati nei viali, correvano che sembravano cavallette e dietro di loro nuvole di fumo, spari, fischi, rumore di tantissimi passi”

“fu allora che successe qualcosa”

“successe che si aprirono le case del quartiere. La sora Lucia, quella che è morta due anni fa sotto una macchina, mise una ventina di limoni a spicchi su un vassoio e scese per strada. Ne dava ai ragazzi e glieli faceva mordere per non sentire i lacrimogeni. Un altro gruppo di donne si sistemò all’inizio del lotto 54, dove c’era la Standa, e qui si apriva in blocco, come un portone, per far passare i ragazzi e poi si chiudeva. Da sotto, un plotone di ps osservava la scena e non sapeva se caricare o no quella ventina di tardone con grembiuli da massaie e fazzoletti annodati in testa. Anche in quel caso, la polizia lasciò stare. E le donne, intanto, sistemarono i ragazzi nelle case e sbarrarono i portoni”.

“la guerriglia, però, ci fu”

“certo”

“tu dov’eri?”

“al bar di piazza Biffi a giocare a carte”

“non sapevi degli scontri?”

“avevo sentito qualcosa. Scendendo di casa sentivo un megafono che gracchiava giù al parco Schuster. Anni dopo ho saputo che era un certo Scalzone. All’epoca urlava come un disperato e diceva a tutti di andare a San Paolo. Avevo visto questa colonna di studenti che si allungava e la polizia da lontano. Pensai che li avrebbero corcati a dovere e forse non mi dispiaceva nemmeno”

“poi?”

“poi è uscito il cuore della garbanza e ci siamo buttati in mezzo”

“riprendiamo dal lotto 54”

“lì la ps arretrò e si disperse nei vicoli. Si vedeva che erano disorientati, quasi cercavano la strada per tornare. Intanto, però, un plotone di polizia si diresse verso il cinema, dove stavano facendo un’assemblea e a piazza Bartolomeo Romano ci fu uno scontro che impressionò tutti quanti. Menavano come i pazzi e gli studenti piangevano e scappavano da tutte le parti. Quelli li bloccavano e li massacravano di manganellate. Poi li lasciavano a terra nel sangue. Penso che fu lì che la Garbatella decise che non sarebbe rimasta a guardare. In cinque minuti non si capì più nulla. Gli studenti scappavano, la polizia li inseguiva e la gente del quartiere inseguiva la polizia. Alla fine non si capiva più chi caricava chi e pure gli studenti presero coraggio. Un gruppo di poliziotti si trovò imbucato al lotto 25 e qui, dai finestroni, cominciarono a volare vasi, insalatiere, pentole, mattarelli, secchi e secchiate d’acqua, sedie, qualcuno scese nel giardino e sciolse i cani. La signora Mattace, la mamma di Gianluca, scese addirittura per strada con la scopa e cominciò a menare col manico un povero poliziotto che non sapeva che fare”.

“una rivolta popolare?”

“core de mamma”

“il popolo”

“gente che difendeva ragazzi che potevano avere l’età dei loro figli, gente che vedeva il sangue e non ci stava. Intanto nei vicoli s’erano allungati, penso, un migliaio di poliziotti”

“e tu dov’eri?”

“io ero sull’uscio del bar, a guardare”

“non ti buttasti nella mischia?”

“no”

“perché?”

“perché avrei dovuto?”

“lo stavano facendo tutti”

“più le donne, noi uomini stavamo fermi”

“perché?”

“se ci fossimo mossi noi sarebbe successa la guerra. La polizia si trattiene se ci stanno di mezzo donne di casa, mamme di famiglia”

“intanto la battaglia era scoppiata”

“ormai si sentivano botti e si alzava il fumo da ogni parte.Via delle Sette Chiese era tutto un lampo. Si sentivano botti fino a via Benzoni. Via Caffaro e via Magnaghi erano due piste da corsa: gente che scappava, oggetti che volavano”

“paese sera parlò di guerriglia e di selvaggia caccia allo studente”

“io avrei parlato di selvaggia caccia alla divisa. Le botte le presero più loro”

“ma a un certo punto la situazione cambiò”

“sì, successe una cosa che non doveva succedere”

“cioè?”

“la polizia dava la caccia agli studenti, le donne aiutavano i ragazzi e alla fine tutti si fermavano, nessuno insisteva. Questa cosa durò un paio d’ore in tutti i lotti tra piazza Masdea, la scuola dei bimbi e piazza Sauli. Solo che a un certo punto, tra gli alberghi e il 27, partì una bottiglia molotov e centrò una camionetta dei carabinieri che risaliva via da Cesinale; la camionetta andò a fuoco. I carabinieri uscirono giusto in tempo, videro la morte in faccia, la peggio morte. Fu così che caricarono le donne”

“addirittura?”

“sì”

“e quindi?”

“intervennero gli uomini”

“capisco”

“già”

“dove?”

“verso la villetta. Una cosa leggera, solo per difendere le donne ma quelli videro arrivare una ventina di maschi incazzatissimi. E successe davvero la guerra. Cominciarono a sparare lacrimogeni che finivano sui tabelloni elettorali dove c’erano i manifesti delle prime regionali. Si alzava il fumo e la gente piegava la testa e le ginocchia; arrivavano bastonate a sangue e si sentivano, nel buio e nel fumo, urla e gemiti”

“tu dov’eri?”

“sempre sull’uscio del bar a piazza Biffi”

“non facevi nulla?”

“non mi riguardava”

“ma pestavano tutti”

“ a me no”

“guardavi?”

“sì, guardavo. Vidi una carica dei carabinieri spingere un piccolo gruppo in un vicolo, un paio di loro ruzzolarono, altri si chiusero nelle case e sbarrarono le porta. Ma i carabinieri sfondarono alcuni usci e, non si capisce perché, fecero irruzione nelle abitazioni”

“lì ci fu la guerra?”

“botte da orbi; alla villetta picchiarono anche il fotografo di paese sera, Brucoli, che si beccò uno sbreco in faccia. Carletto mi raccontò che lui fu menato col calcio del fucile dietro la schiena. Poi la carica si fermò e i carabinieri arretrarono. Mentre andavano, tra via Lasagna e via Persico, videro una decina di studenti stremati stesi sul marciapiede. Si avventarono addosso a loro, questi ripresero a scappare e pensarono bene di correre nel bar”

“dove stavi tu?”

“sì, io e tre amici”

“chi erano?”

“Michelone, Silvano e Luciano”

“oggi nessuno di loro è vivo”

“eh, me lo devi ricordare per forza?”

“scusa. Che faceste?”

“ci spostammo e facemmo entrare gli studenti. Michelone li sistemò dietro al bancone e gli diede da bere. Noi tre ci rimettemmo sull’uscio. I carabinieri si fermarono a guardarci. Erano una quarantina, noi tre. Ma ci guardammo con rispetto. Noi non ci muovemmo e nemmeno loro. Secondo me siamo stati fermi così per almeno quindici minuti, a guardarci”

“a quel punto c’entravi pure tu”

“per forza”

“fu così che entrasti nella rivolta”

“nun ce volevo entrà”

“ma oggi tutti ti ricordano. Quando parlano della rivolta della Garbatella dicono la guerra di Alvaro”

“e si sbagliano, io me ne stavo per i cavoli miei”

“racconta”

“noi tre stavamo sulla porta e i carabinieri ci guardavano. A un certo punto arriva un funzionario con la fascia tricolore; si fa avanti e ci dice ‘toglietevi di mezzo, dobbiamo arrestare quei ragazzi’”

“e tu?”

“e io gli dissi che quei ragazzi si stavano rinfrescando il viso dopo tutte le botte prese. Lui rispose che uno di loro aveva lanciato la bottiglia incendiaria e doveva essere arrestato”

“e tu?”

“e io gli ridissi che quei ragazzi si stavano rinfrescando il viso. Il funzionario mi guardò e rimase in silenzio. Poi arrivò Peppone la guardia, il figlio di Ciccio. Peppone era un poliziotto ma era pure uno del quartiere. Stava in borghese e mi disse “ a sor arvà, meglio che ve togliete de mezzo, stateme a sentì, nun so’  fatti vostri. Lasciateglie prende sti ragazzi”. Io non gli risposi nemmeno. Nella folla si fece strada pure Paolo il ciancicone, il commissario della Garbatella. Ci conoscevamo, era stato un mio tifoso quando feci il titolo italiano dei massimi. Pure lui aveva tirato di pugilato, poi smise ed entrò in polizia. Ci stimavamo e lui mi venne vicino, mi appoggiò la mano sulla spalla e mi disse “Arvà tu sei un uomo serio, ci conosciamo da tanti anni; levati di mezzo, lascia stare. Lasciagli prendere questi ragazzi, e chiudiamo questa storia”.

“e tu?”

“ io gli dissi a ciancicò, nun se menano i prigionieri’. lui scosse la testa e girò le spalle”

“tu li conoscevi i ragazzi?”

“nemmeno uno”

“e perché li difendesti?”

“perché stavano alla Garbatella, stavano nel mio bar, l’avevano spezzati de botte, avevano vent’anni e perdevano sangue e piangevano e…”

“e…”

“e a un certo punto Silvano urlò  ‘mica stiamo ai tempi dei nazisti? ‘Amo fatto la resistenza, nun ce fanno paura quattro stronzi con la divisa’. Fu in quel momento che scoppiò la guerra di cui si parla”.

“la guerra di Alvaro”

“furono trenta, quaranta minuti; il funzionario ordinò la carica, questi si buttarono a testa bassa e cominciarono a menare. Io mi irrigidii sulla porta e li aspettai. Ne stesi cinque, con il montante destro”

“il tuo colpo”

“una botta secca sotto al mento, l’unico posto lasciato libero dal casco. Poi cominciai a menare di gomito e calci. Intanto Silvano e Luciano erano stesi, qualche carabiniere riuscì a entrare nel bar e pensava di avercela fatta. Ma non calcolò l’imprevisto”

“la gente”

“arrivarono almeno centocinquanta persone da tutto il quartiere. Maschi, vecchi, ragazzini, donne, mamme, zie, nonne, da tutti i vicoli, dai lotti di sopra, dalle strada dietro agli alberghi; e ognuno di loro aveva in mano un oggetto. Chi un vaso, chi un cucchiaio di legno, chi uno sgabello. Si buttarono urlando nella mischia e menarono tante di quelle botte sui carabinieri che a un certo punto cominciai a prendere quelli in divisa e li guidavo in strada, lanciandoli lontano per farli andare via, prima che li uccidessero. Nella confusione anche i ragazzi tentarono di scappare ma la gente della Garbatella li bloccò lì”

“perché?”

“perché dovevano consegnarsi”

“questa cosa non l’ho mai capita”

“te la spiego”

“sì”

“se uno di quei ragazzi aveva lanciato una bottiglia incendiaria sui carabinieri, rischiando di ammazzarli, doveva consegnarsi e prendersi la sua responsabilità. La gente del rione li ha difesi dalle botte, dal massacro, dalle ossa rotta e dal pestaggio. Ma poi si dovevano consegnare, se erano stati loro. Questo voleva la gente della Garbatella”

“mi piacerebbe parlare di questa gente”

“che c’è da dire?”

“valori antichi, profondi”

“gente semplice”

“e i ragazzi che fecero?”

“si guardarono intorno e capirono che era il caso di fare la cosa giusta”

“quindi?”

“si fece avanti un certo Guglielmo; i carabinieri si erano allontanati, io feci uscire i ragazzi dal retro e presi Guglielmo sotto braccio. Uscimmo sulla strada, le donne, i maschi, i bambini, le vecchie e i vecchi della Garbatella tornarono alle loro case e io andai, con Guglielmo sotto braccio, verso il commissariato. Trovai ciancicone sulla porta, gli diedi il ragazzo. ‘Mi raccomando’, dissi, ‘nun glie mettete le mani addosso’. Il commissario annuì, prese il ragazzo e se lo portò”

“e tu?”

“e io tornai al bar, passando nel vicolo più lungo del rione, tra gli ultimi fumi dei lacrimogeni, i vetri rotti, guardando da lontano una colonna di camionette che si allontanava e vedendo, dal lato opposto, file di gente che tornava a casa sua, arrampicandosi lungo i viali”

“i viali del quartiere”

“sì”

“la guerra di Alvaro era finita”

“fammi un favore ”

“sì”

“questo racconto non lo chiamare la guerra di Alvaro”

“e come lo devo chiamare?”

“fai tu”

“va bene, nonno”.

Radici sulle radici

Ho ancora quell’emozione liquida nelle ginocchia. Ed è così che voglio raccontare questa storia. Prima che il mio cervello si immerga nella sua rabbia cronica. Prima che la mia sfiducia assoluta nell’umanità, e nel futuro, tornino a mescolarmi i pensieri coi ricordi e col soffritto amaro di quello che non può più essere. Prima che scriva anche la terza frase sul prima, che alla quarta già questa storia potrebbe non esistere più.

Voglio farlo subito, voglio farlo così, perchè ci sono lampi improvvisi che se li fotografi poi è bello metterli su una parete.

Ma mi sto attardando, e se non faccio in fretta sfuma tutto, come l’olio nella padella.

Voglio raccontare la storia di un invito, di una presentazione, di una conoscenza bella, di sette ragazzi (ma forse erano di più, boh, settantasette). La storia di un lampo di speranza, che prima di finire questo pezzo, sarà già passata, ma per intanto voglio nutrirmene come quando mangi un piatto buono e sminuzzi l’ultimo boccone.

E’ successo questo.

Sono stato invitato ad un incontro. Una chiacchierata sul mio libro. E’ successo quasi cinquanta volte da gennaio. Ho fatto presentazioni ovunque, da Vicenza a Firenze, da Gabicce a Prato, da Catanzaro a Viterbo, da Brindisi a Cosenza, e praticamente in tutta la Campania. Ogni volta che mi chiamano resto sorpreso. Volete me? E perchè? La stessa reazione l’ho avuta quando mi hanno scritto dal Festival della letteratura mediterranea. Il nome mi metteva già soggezione. Una rapida ricerca sul web mi ha fatto crescere l’ansia. Decima edizione di un festival internazionale. C’erano stati, negli anni, scrittori italiani importanti come Carmine Abate, Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Raffaele Nigro, e poeti del mediterraneo di grande ispirazione e prestigio di cui non faccio i nomi perchè figuriamoci chi conosce un poeta marocchino, di questi tempi.

Che c’entro io, quindi?

Ho provato timidamente a chiederlo ma mi hanno detto che c’entravo. Punto. Accetto. Punto. Tanto mancavano alcuni mesi, e poi si vede.

Venerdì arriva il momento di partire. Cerco di non coltivare mai aspettative. E’ una mia profilassi sentimentale. Sono cauto. Vado e mi trattengo il necessario. Magari riparto dopo l’incontro, oppure all’alba. Due ore da Napoli. Il posto è Lucera, in provincia di Foggia. Non so dove sia. Non so cosa sia. Sarà uno di quegli agglomerati informi di case e apatia che spuntano, a volte, nelle campagne desolate del sud.

Parto con questo spirito. Cioè assenza di spirito. Guida Simona, che sa quando è il momento di mettersi ai comandi, e lo fa con la solita morbidezza e decisione.

Le pale eoliche tra Lacedonia e Candela non aiutano. Sono manichini impiccati al vento, fa impressione vederne la base. Un monopiede nel gesso. Questa campagna, poi, tutta piatta, che sembra infinita, mi dà la sensazione terribile che non arriveremo mai; invecchierò così, in auto, nell’abitacolo di una utilitaria, su una pianura a cercare per tutta la vita un paese che non esiste.

Poi compare Foggia. Duecento condomini di balconi, vasi di fiori, ringhiere arrugginite, bar, auto in sosta. Niente altro. Da Foggia c’è una strada verso Lucera che si chiama, ovviamente, Via Lucera. Poi scoprirò che nel senso opposto si chiama Via Foggia. Arrivo alla base di una collinetta, salgo qualche tornante e mi trovo al centro di un borgo silenzioso e chiuso in una pietra bianca levigata e leggera. Un labirinto di lastroni, con palazzetti raccolti, pacifici, con un ordine irreale. Ci sono inusitati richiami letterari nelle insegne dei bar. C’è una frase di Kerouac sullo stipite di una enoteca. C’è una osteria intitolata ad un libro di Bruce Chatwin, Utz, che io ignoravo. C’è un bar Svevo, di cui parlerò. Che bello, intolato a Italo Svevo, mi sono detto. No, il richiamo è agli svevi, una delle culture che nei secoli hanno contaminato questi luoghi, senza conquistarli mai.

Trovo Lucera straordinaria. Come la sorpresa magica dall’uovo Kinder. Accolgo la sua luce (ecco) tirandola nei pori, come faccio con l’aria fresca della sera. Ho la presentazione alle sette, arrivo alle sei e mezza. Giusto in tempo per parcheggiare e guadagnare la piazza.

Piazza Oberdan.

Ci trovo duecento sedie. Vuote. Un riflettore. Due tavoli. Cinque persone. Vabbè, non verrà nessuno. Facciamoci un giro. Sono cinque minuti di solita vita, solita noia.

Ma solo cinque, perchè da quel momento tutto cambia.

Tutto, fino a che non finisco di scrivere questo post, naturalmente, che dopo si torna lì da dove si era partiti. Al nulla in scatola di questo tempo così.

Ma lì cambia. Mi si fanno incontro i ragazzi dell’associazione che hanno organizzato il festival. Sono molto giovani, sono sobri, hanno una bella luce negli occhi. Non so bene chi conosco per primo. Forse Modestina, che si occupa dell’accoglienza; forse Francesca, o Annalisa. Non ricordo. Andiamo al bar, conosco Nicola, poi arriva il presidente. Conosco giovani organizzatori a raffica, uno dietro l’altro. Sono colpito dai loro volti essenziali. Sono senza trucchi. Mi colpisce la loro giovane età, penso che siano i volontari, quelli che i direttori organizzativi di vecchi babbioni mettono a gestire l’aspetto pratico delle iniziative che poi, loro, si fregiano di vantare sui palchi e nelle interviste. E invece i ragazzi mi spiegano subito come stanno le cose. “Dopo nove edizioni del Festival, l’associazione ha rinnovato il suo Direttivo. I vecchi organizzatori hanno fatto un passo indietro. E’ nato un gruppo di sette giovani, con meno di trent’anni, che quest’anno organizza il festival direttamente. Un bell’impegno, perchè è la decima edizione”.

Resto colpito. Vecchi che fanno un passo indietro e lasciano le chiavi di casa ai ragazzi? In Italia?

Ci deve essere un trucco.

La mia presentazione, intanto, incombe. Arriva Pino Bruno. Sarà il moderatore della serata. Ci conosciamo in questa occasione. Poi scopro che è un giornalista con i controcoglioni al quadrato (scusate ma non trovo un’altra espressione). Lavora alla Rai di Bari, era praticante all’Ansa quando nel 1980 lo mandarono in Irpinia per il terremoto, poi si è fatto un po’ di guerre (ex Jugoslavia, Somalia) per il Tg1. Infine, è tornato alla sua terra. Amandola, però. Questo è un punto che scoprirò ora dopo ora per tutto il mio soggiorno. In lui e nella moglie Rossella – persone umili e gigantesche -, con cui è nata una vera amicizia ma anche nei ragazzi.

L’amore rabbioso per la loro terra.

La presentazione va alla grande. Lucera si sveglia un poco alla volta. Compaiono ombre dai vicoli, uomini e donne con braccia conserte, silenziosi si siedono. Volto lo sguardo e mi accorgo che la piazza è piena. Pino mi trascina in un portone. “Devo farti vedere una cosa”. Nel cuore di un palazzo c’è un giardino magico. Un melograno con i frutti, come un giardino di Pantelleria. E’ il cortile di un B & B. Incontro Antonio, un ragazzo. Proprietario e gestore. Anche lui è uno dei raggi di quel lampo che sto fotografando, scrivendo. Il B&B si chiama Le foglie di acanto, andateci. E’ meraviglioso. C’è un camino incantevole. E un pianoforte. Antonio mi racconta la storia di questa impresa. Una ristrutturazione timida, un’accoglienza semplice. “Le cose vanno abbastanza bene, non mi lamento. L’importante è sentirsi sereni col proprio lavoro”.

Sereni col proprio lavoro.

Mi sembra un concetto rivoluzionario.

Torniamo sulla piazza. Parliamo del libro per due ore. Nessuno si alza. Ascoltano, ridono. Saranno duecento. Non ci posso credere. Dopo firmo libri. Mi dicono che ne hanno venduto sessanta. Mi fanno i complimenti. Ma io vorrei farli a loro. Si può parlare di letteratura in un piccolo paese del sud alle dieci di sera di un venerdì, in piazza, con duecento persone che ascoltano?

Sì, evidentemente.

Dopo la presentazione, sempre all’aperto, in un’altra piazza del paese c’è uno spettacolo di musica e parole. E’ così per cinque giorni. Una poetessa siriana, uno scrittore francese, musicisti, attori: il palcoscenico naturale sono le strade del centro storico.

Questo è il festival.

Prima, durante il tragitto, grazie alla contagiosa energia di Pino Bruno, comincio a conoscere meglio questi ragazzi. Un viaggio nelle loro vite, che continua la mattina dopo, perchè intanto ho deciso di restare anche la mattina dopo, e anche il pomeriggio, e anche la sera, e una notte ancora, e anche la mattina dopo.

Perchè a Lucera c’è la luce. E questi sette ragazzi, che sono settantasette. Conosco Berenice, che scatta foto a raffica; e altri di cui non ricordo i nomi, ma benissimo i volti. Provo a capire che storie hanno. Resto colpito. Sono andati tutti via, ad un certo punto. Via dal paese, via dalla Puglia, via dal sud. Verso Roma, verso il Piemonte, verso l’estero. Si sono laureati. Chi in Ingegneria, chi all’Accademia, chi in Scienze gastronomiche, chi in Arti e Spettacolo. Solo che dopo la laurea, dopo qualche lavoro, hanno deciso di tornare. Me lo spiega bene Nicola, che poteva andare a Bruxelles: “sono tornato perchè qui mi sento al sicuro”. Oggi fa il vino con il nonno e il padre in un’azienda agricola, e vive al centro di Lucera con la fidanzata. Con loro lavora anche la sorella. Fanno un bel vino nero – non rosso – che beviamo con piacere tutte le sere. Conosco anche i genitori. “Abbiamo lasciato che fossero liberi di scegliere – dicono – oggi sono qui e siamo felicissimi”.

Sono tornati, ma hanno i piedi nella terra. Letteralmente. Hanno deciso di mettere radici sulle radici. Sanno che dovranno vivere con meno mezzi, meno soldi, rinunciando a qualcosa, togliendo alle famiglie l’ambizione del salto sociale. Tornano alla terra, quella del nonno. Sono agricoltori laureati. Consapevoli. Pronti a nutrirsi della loro storia, perchè sui tuoi luoghi ti senti al sicuro.

Non è mammismo. Anzi, sì. Ma per la madre terra.

Trovo la stessa storia in un altro ragazzo. Laureato a Roma, torna a Lucera e fa i dolci nella pasticceria di famiglia. Uno spumone eccezionale. Mangiatelo (Bar Svevo). E’ tornato anche lui. Non per viltà ma perchè in un mondo che ti fa ballare come una majorette triste sui suoi ritmi infernali, bisogna ritrovare un senso.

Questi sette ragazzi, anzi settantasette, sono tornati per lavorare con serenità. Amano la loro terra, e per questo fanno il festival. Senza scopo di lucro. Senza simboli di partito. Il loro impegno è “politico”, ma non vogliono nemmeno saperlo. Non hanno altra ambizione che lavorare con serenità.

Organizzano il festival con gli avarissimi contributi di qualche istituzione, e uno sponsor tecnico generoso (Edison Luce, in questo paese luminoso). Lo organizzano in modo straordinario, costruendo una rete tra loro. Ci fanno alloggiare nei B&B dei loro amici, che sono tornati, hanno messo a posto le vecchie dimore dei nonni e ci hanno fatto accoglienza turistica; ci fanno mangiare nelle osterie dei loro amici, che sono tornati, dopo aver studiato, e sperimentano cucina tipica e di innovazione; ci fanno bere il vino delle loro cantine, fatto con le loro mani come quello di Marika Maggi e Sergio Grasso, della cantina La Marchesa, che hanno rimesso in moto i poderi di famiglia e ci fanno una bottiglia di rosè buonissima e profumata chiamata Il Melograno. Queste sette ragazzi, che sono settantasette, ci portano a vedere il loro Paese, a sentire l’odore della loro terra. Li guardo pensando, invece, ad altri amici che sono andati via, che hanno fatto altre scelte, che rispetto profondamente, ma che si traducono in piccoli massacri personali, nel corpo, nell’anima, nello sradicamento, nel senso permanente di estraneità che si portano dietro, ad un certo punto, anche negli affetti, nell’essere.

Mi specchio, invece, nella speranza asciutta di chi è rimasto e per un attimo ne vengo contagiato. Forse si riparte da qui, da Lucera, da questa rete di ritornati alla terra. Forse si riparte proprio dalla terra, come sempre quando si cade in ginocchio.

Io, per un po’, l’ho fatto e ringrazio questi sette ragazzi, che sono settantasette raggi del lampo che ho provato a fotografare.

In ginocchio da te

Una mia cronaca del miracolo di San Gennaro, pubblicata dal sito www.mediterraneonews.it

San Gennaro (anzi Gennarì, per noi che siamo in confidenza) non tradisce mai. Fa sempre notizia. Se il sangue non si scioglie, va decifrato il rebus dell’ira funesta. E sono prime pagine. Se si scioglie, va interpretato il buon augurio. E sono prime pagine. Se tarda, si interpreta il segno, e sono prime pagine. Se si affretta, si gonfia il cuore di speranza, e sono campane a festa.
C’è solo un’altra cosa, in città, che ha lo stesso effetto di “faccia gialla”: il pallone. Basta una semifinale di Coppa Italia per iniettare nelle vene di Napoli la droga euforica della speranza. Perché in questa città, dove un piatto a tavola si mette, la fame è sempre di speranza. Vulesse Dio. Foss’o cielo. A Maronna t’accumpagna. Faccia gialla, fallo ‘sto miracolo. Il sacro è meglio del prozac.
Una città in ginocchio di suo, deve dare un senso alla sua postura. E la chiama fede. San Gennaro e San Cavani. In ginocchio da te. Se sciogli il sangue, se la butti dentro. L’aveva capito pure l’indimenticato poeta del Mistero di Bellavista: “San Gennaro, non ti crucciare. Io ti voglio bene, tu lo sai. Ma ‘na finta di Maradona squaglia il sangue nelle vene”.
Santi del cielo e santi della terra. E più terreno di Gennaro, non ce n’è. Lo invocano nobili e miserabili. Tutta la città se lo chiede dal mattino. Chi può, scende di casa, e “va al miracolo”, come fosse una partita di pallone. In realtà, si chiama prodigio della liquefazione. Miracolo è una parola impegnativa. La Chiesa si tiene cauta. Ma si veste a festa. Oggi, alle nove e dodici, la teca con le due ampolle, tra le mani del cardinale Sepe, nel Duomo di Napoli, aveva fretta. E’ un autunno ansioso, questo qui. Il sangue si è sciolto subito. I dodici detenuti di Secondigliano e Poggioreale, presenti in cattedrale grazie ad un permesso concesso dal tribunale di sorveglianza, si sono commossi. Magari esce un nuovo indulto. Ognuno, come con le stelle cadenti, o a capodanno, o come quando spegni le candeline del compleanno, ha chiuso gli occhi e ha espresso un desiderio. Non si realizzerà. Ma che ci perdiamo? “Se non giochi non vinci”.
Il sindaco de Magistris si è fiondato a baciare la teca, dalle mani dello stesso cardinale a cui aveva detto “che pena”, due settimane prima, quando lo aveva criticato sui quartieri a luci rosse. Lo stesso Sepe non ha perso tempo. La politica bacia la mano. E la mano sacra si alza sulla politica. Più o meno come quando, un anno fa, al centro dello stadio San Paolo (un altro santo), lo stesso Sepe e lo stesso De Magistris, con 30mila tifosi sugli spalti, benedirono la squadra di calcio, che poi avrebbe vinto la Coppa Italia. Sacro, profano, politica e pallone. E’ il nostro impasto. La colla che ci tiene uniti. Non c’è da scandalizzarsi, e nemmeno tanto da sfottere. Nessuna ironia su San Gennaro, non ce la possiamo permettere. Di questi tempi, meglio averlo amico che nemico. “San Gennà facci la grazia!”. La supplica l’hanno fatta anche gli attivisti dell’associazione di cultura omosessuale i-Ken. Hanno distribuito una preghiera sul sagrato del duomo: “…passa ‘na mano ‘ncoppa a tutta sta ignoranza, ‘ncoppa a tutta sta viulenza, si fermi l’omofobia!”.
Stavolta, però, forse, hanno chiesto un po’ troppo.
Provate con Santa Patrizia, che scioglie il sangue pure lei, il 25 agosto, a San Gregorio Armeno. Ma nessuno lo sa. E’ un sangue minore. Sangue di minoranza. Un prodigio di serie B. Mio Dio, speriamo di non tornarci più.

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