Ho ancora quell’emozione liquida nelle ginocchia. Ed è così che voglio raccontare questa storia. Prima che il mio cervello si immerga nella sua rabbia cronica. Prima che la mia sfiducia assoluta nell’umanità, e nel futuro, tornino a mescolarmi i pensieri coi ricordi e col soffritto amaro di quello che non può più essere. Prima che scriva anche la terza frase sul prima, che alla quarta già questa storia potrebbe non esistere più.
Voglio farlo subito, voglio farlo così, perchè ci sono lampi improvvisi che se li fotografi poi è bello metterli su una parete.
Ma mi sto attardando, e se non faccio in fretta sfuma tutto, come l’olio nella padella.
Voglio raccontare la storia di un invito, di una presentazione, di una conoscenza bella, di sette ragazzi (ma forse erano di più, boh, settantasette). La storia di un lampo di speranza, che prima di finire questo pezzo, sarà già passata, ma per intanto voglio nutrirmene come quando mangi un piatto buono e sminuzzi l’ultimo boccone.
E’ successo questo.
Sono stato invitato ad un incontro. Una chiacchierata sul mio libro. E’ successo quasi cinquanta volte da gennaio. Ho fatto presentazioni ovunque, da Vicenza a Firenze, da Gabicce a Prato, da Catanzaro a Viterbo, da Brindisi a Cosenza, e praticamente in tutta la Campania. Ogni volta che mi chiamano resto sorpreso. Volete me? E perchè? La stessa reazione l’ho avuta quando mi hanno scritto dal Festival della letteratura mediterranea. Il nome mi metteva già soggezione. Una rapida ricerca sul web mi ha fatto crescere l’ansia. Decima edizione di un festival internazionale. C’erano stati, negli anni, scrittori italiani importanti come Carmine Abate, Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Raffaele Nigro, e poeti del mediterraneo di grande ispirazione e prestigio di cui non faccio i nomi perchè figuriamoci chi conosce un poeta marocchino, di questi tempi.
Che c’entro io, quindi?
Ho provato timidamente a chiederlo ma mi hanno detto che c’entravo. Punto. Accetto. Punto. Tanto mancavano alcuni mesi, e poi si vede.
Venerdì arriva il momento di partire. Cerco di non coltivare mai aspettative. E’ una mia profilassi sentimentale. Sono cauto. Vado e mi trattengo il necessario. Magari riparto dopo l’incontro, oppure all’alba. Due ore da Napoli. Il posto è Lucera, in provincia di Foggia. Non so dove sia. Non so cosa sia. Sarà uno di quegli agglomerati informi di case e apatia che spuntano, a volte, nelle campagne desolate del sud.
Parto con questo spirito. Cioè assenza di spirito. Guida Simona, che sa quando è il momento di mettersi ai comandi, e lo fa con la solita morbidezza e decisione.
Le pale eoliche tra Lacedonia e Candela non aiutano. Sono manichini impiccati al vento, fa impressione vederne la base. Un monopiede nel gesso. Questa campagna, poi, tutta piatta, che sembra infinita, mi dà la sensazione terribile che non arriveremo mai; invecchierò così, in auto, nell’abitacolo di una utilitaria, su una pianura a cercare per tutta la vita un paese che non esiste.
Poi compare Foggia. Duecento condomini di balconi, vasi di fiori, ringhiere arrugginite, bar, auto in sosta. Niente altro. Da Foggia c’è una strada verso Lucera che si chiama, ovviamente, Via Lucera. Poi scoprirò che nel senso opposto si chiama Via Foggia. Arrivo alla base di una collinetta, salgo qualche tornante e mi trovo al centro di un borgo silenzioso e chiuso in una pietra bianca levigata e leggera. Un labirinto di lastroni, con palazzetti raccolti, pacifici, con un ordine irreale. Ci sono inusitati richiami letterari nelle insegne dei bar. C’è una frase di Kerouac sullo stipite di una enoteca. C’è una osteria intitolata ad un libro di Bruce Chatwin, Utz, che io ignoravo. C’è un bar Svevo, di cui parlerò. Che bello, intolato a Italo Svevo, mi sono detto. No, il richiamo è agli svevi, una delle culture che nei secoli hanno contaminato questi luoghi, senza conquistarli mai.
Trovo Lucera straordinaria. Come la sorpresa magica dall’uovo Kinder. Accolgo la sua luce (ecco) tirandola nei pori, come faccio con l’aria fresca della sera. Ho la presentazione alle sette, arrivo alle sei e mezza. Giusto in tempo per parcheggiare e guadagnare la piazza.
Piazza Oberdan.
Ci trovo duecento sedie. Vuote. Un riflettore. Due tavoli. Cinque persone. Vabbè, non verrà nessuno. Facciamoci un giro. Sono cinque minuti di solita vita, solita noia.
Ma solo cinque, perchè da quel momento tutto cambia.
Tutto, fino a che non finisco di scrivere questo post, naturalmente, che dopo si torna lì da dove si era partiti. Al nulla in scatola di questo tempo così.
Ma lì cambia. Mi si fanno incontro i ragazzi dell’associazione che hanno organizzato il festival. Sono molto giovani, sono sobri, hanno una bella luce negli occhi. Non so bene chi conosco per primo. Forse Modestina, che si occupa dell’accoglienza; forse Francesca, o Annalisa. Non ricordo. Andiamo al bar, conosco Nicola, poi arriva il presidente. Conosco giovani organizzatori a raffica, uno dietro l’altro. Sono colpito dai loro volti essenziali. Sono senza trucchi. Mi colpisce la loro giovane età, penso che siano i volontari, quelli che i direttori organizzativi di vecchi babbioni mettono a gestire l’aspetto pratico delle iniziative che poi, loro, si fregiano di vantare sui palchi e nelle interviste. E invece i ragazzi mi spiegano subito come stanno le cose. “Dopo nove edizioni del Festival, l’associazione ha rinnovato il suo Direttivo. I vecchi organizzatori hanno fatto un passo indietro. E’ nato un gruppo di sette giovani, con meno di trent’anni, che quest’anno organizza il festival direttamente. Un bell’impegno, perchè è la decima edizione”.
Resto colpito. Vecchi che fanno un passo indietro e lasciano le chiavi di casa ai ragazzi? In Italia?
Ci deve essere un trucco.
La mia presentazione, intanto, incombe. Arriva Pino Bruno. Sarà il moderatore della serata. Ci conosciamo in questa occasione. Poi scopro che è un giornalista con i controcoglioni al quadrato (scusate ma non trovo un’altra espressione). Lavora alla Rai di Bari, era praticante all’Ansa quando nel 1980 lo mandarono in Irpinia per il terremoto, poi si è fatto un po’ di guerre (ex Jugoslavia, Somalia) per il Tg1. Infine, è tornato alla sua terra. Amandola, però. Questo è un punto che scoprirò ora dopo ora per tutto il mio soggiorno. In lui e nella moglie Rossella – persone umili e gigantesche -, con cui è nata una vera amicizia ma anche nei ragazzi.
L’amore rabbioso per la loro terra.
La presentazione va alla grande. Lucera si sveglia un poco alla volta. Compaiono ombre dai vicoli, uomini e donne con braccia conserte, silenziosi si siedono. Volto lo sguardo e mi accorgo che la piazza è piena. Pino mi trascina in un portone. “Devo farti vedere una cosa”. Nel cuore di un palazzo c’è un giardino magico. Un melograno con i frutti, come un giardino di Pantelleria. E’ il cortile di un B & B. Incontro Antonio, un ragazzo. Proprietario e gestore. Anche lui è uno dei raggi di quel lampo che sto fotografando, scrivendo. Il B&B si chiama Le foglie di acanto, andateci. E’ meraviglioso. C’è un camino incantevole. E un pianoforte. Antonio mi racconta la storia di questa impresa. Una ristrutturazione timida, un’accoglienza semplice. “Le cose vanno abbastanza bene, non mi lamento. L’importante è sentirsi sereni col proprio lavoro”.
Sereni col proprio lavoro.
Mi sembra un concetto rivoluzionario.
Torniamo sulla piazza. Parliamo del libro per due ore. Nessuno si alza. Ascoltano, ridono. Saranno duecento. Non ci posso credere. Dopo firmo libri. Mi dicono che ne hanno venduto sessanta. Mi fanno i complimenti. Ma io vorrei farli a loro. Si può parlare di letteratura in un piccolo paese del sud alle dieci di sera di un venerdì, in piazza, con duecento persone che ascoltano?
Sì, evidentemente.
Dopo la presentazione, sempre all’aperto, in un’altra piazza del paese c’è uno spettacolo di musica e parole. E’ così per cinque giorni. Una poetessa siriana, uno scrittore francese, musicisti, attori: il palcoscenico naturale sono le strade del centro storico.
Questo è il festival.
Prima, durante il tragitto, grazie alla contagiosa energia di Pino Bruno, comincio a conoscere meglio questi ragazzi. Un viaggio nelle loro vite, che continua la mattina dopo, perchè intanto ho deciso di restare anche la mattina dopo, e anche il pomeriggio, e anche la sera, e una notte ancora, e anche la mattina dopo.
Perchè a Lucera c’è la luce. E questi sette ragazzi, che sono settantasette. Conosco Berenice, che scatta foto a raffica; e altri di cui non ricordo i nomi, ma benissimo i volti. Provo a capire che storie hanno. Resto colpito. Sono andati tutti via, ad un certo punto. Via dal paese, via dalla Puglia, via dal sud. Verso Roma, verso il Piemonte, verso l’estero. Si sono laureati. Chi in Ingegneria, chi all’Accademia, chi in Scienze gastronomiche, chi in Arti e Spettacolo. Solo che dopo la laurea, dopo qualche lavoro, hanno deciso di tornare. Me lo spiega bene Nicola, che poteva andare a Bruxelles: “sono tornato perchè qui mi sento al sicuro”. Oggi fa il vino con il nonno e il padre in un’azienda agricola, e vive al centro di Lucera con la fidanzata. Con loro lavora anche la sorella. Fanno un bel vino nero – non rosso – che beviamo con piacere tutte le sere. Conosco anche i genitori. “Abbiamo lasciato che fossero liberi di scegliere – dicono – oggi sono qui e siamo felicissimi”.
Sono tornati, ma hanno i piedi nella terra. Letteralmente. Hanno deciso di mettere radici sulle radici. Sanno che dovranno vivere con meno mezzi, meno soldi, rinunciando a qualcosa, togliendo alle famiglie l’ambizione del salto sociale. Tornano alla terra, quella del nonno. Sono agricoltori laureati. Consapevoli. Pronti a nutrirsi della loro storia, perchè sui tuoi luoghi ti senti al sicuro.
Non è mammismo. Anzi, sì. Ma per la madre terra.
Trovo la stessa storia in un altro ragazzo. Laureato a Roma, torna a Lucera e fa i dolci nella pasticceria di famiglia. Uno spumone eccezionale. Mangiatelo (Bar Svevo). E’ tornato anche lui. Non per viltà ma perchè in un mondo che ti fa ballare come una majorette triste sui suoi ritmi infernali, bisogna ritrovare un senso.
Questi sette ragazzi, anzi settantasette, sono tornati per lavorare con serenità. Amano la loro terra, e per questo fanno il festival. Senza scopo di lucro. Senza simboli di partito. Il loro impegno è “politico”, ma non vogliono nemmeno saperlo. Non hanno altra ambizione che lavorare con serenità.
Organizzano il festival con gli avarissimi contributi di qualche istituzione, e uno sponsor tecnico generoso (Edison Luce, in questo paese luminoso). Lo organizzano in modo straordinario, costruendo una rete tra loro. Ci fanno alloggiare nei B&B dei loro amici, che sono tornati, hanno messo a posto le vecchie dimore dei nonni e ci hanno fatto accoglienza turistica; ci fanno mangiare nelle osterie dei loro amici, che sono tornati, dopo aver studiato, e sperimentano cucina tipica e di innovazione; ci fanno bere il vino delle loro cantine, fatto con le loro mani come quello di Marika Maggi e Sergio Grasso, della cantina La Marchesa, che hanno rimesso in moto i poderi di famiglia e ci fanno una bottiglia di rosè buonissima e profumata chiamata Il Melograno. Queste sette ragazzi, che sono settantasette, ci portano a vedere il loro Paese, a sentire l’odore della loro terra. Li guardo pensando, invece, ad altri amici che sono andati via, che hanno fatto altre scelte, che rispetto profondamente, ma che si traducono in piccoli massacri personali, nel corpo, nell’anima, nello sradicamento, nel senso permanente di estraneità che si portano dietro, ad un certo punto, anche negli affetti, nell’essere.
Mi specchio, invece, nella speranza asciutta di chi è rimasto e per un attimo ne vengo contagiato. Forse si riparte da qui, da Lucera, da questa rete di ritornati alla terra. Forse si riparte proprio dalla terra, come sempre quando si cade in ginocchio.
Io, per un po’, l’ho fatto e ringrazio questi sette ragazzi, che sono settantasette raggi del lampo che ho provato a fotografare.
Sinceramente non so chi sia Antonio Menna, però ha saputo cogliere appieno l’anima dei luoghi, delle persone, è stato un testimone eccellente.
Grazi eAntonio non ti conosco ma ti apprezzo.
Straordinario, commuovente. Se ci sono ragazzi così questo paese non è ancora perduto. Grazie Antonio
è meraviglioso. Sono commossa, da anni non si parlava con questa passione dei giovani. grazie, da parte di una donna non più giovane ma che ha deciso di lavorare con i giovani
vivo in un paesino del cilento Torre Orsaia sono su fb di mio marito e leggo spesso quello che scrivi. Complimenti! Vorrei chiederti un consiglio: come si fa a coinvolgere i giovani nelle cose degli adulti che loro pensano “di altri tempi”? Grazie Lucia
Ciao, Lucia, forse non bisogna provare a convincerli. Bisogna lasciarli liberi di scegliere.
Vorrei essere parte di qualcosa come quei ragazzi, e riuscire a emozionare qualcuno come te nello stesso modo 🙂
Ciao Antonio. Non ci conosciamo ma sono stato al Festival il giorno prima del tuo incontro, e poi purtroppo sono dovuto ripartire. Il tuo bellissimo post racconta alla perfezione quella terra, quella città e quei sette o settantasette magnifici ragazzi, e mi restituisce una per una le sensazioni che ho provato io stesso. Bravo e grazie!
Grazie…parole bellissime e vere…Lucera non morirà…questi giovani sono il nostro futuro…
Spero che anche chi non ha una “base” da cui partire abbia il coraggio di rimanere….
È bellissimo leggere e sapere di essere uno di quei settantasette. Grazie Antonio Menna.
non c’è niente da fare: non riesci proprio a dare il meglio senza prima ammorbare il prossimo con le tue paure, le tue insicurezze. Ma comunque adesso ti ho scoperto: è tutta una tattica. Eppure dal romanzo, che so leggendo, si intuisce perfettamente che hai un talento comico. Insisti su quello e non rompere. Sono quello dellamdomanda scema sul Napoli, se non l’hai ancora capito. Ti ringrazio per il tuo bellissimo contributo, anche a nome dei 77. E’ senza dubbio la cosa più bella che sia stata scritta sulla Lucera contemporanea. Getta una luce nuova su cose, fatti e persone, facendoceli vedere in un modo che noi autoctoni diversamente non coglieremmo, abbagliati dalla luce diffusa della noia quotidiana. Ma basta con le metafore luminose, altrimenti penserai che sono della Edison. Mi hai fatto sorgere dubbi e interrogativi su diversi preconcetti e tanto basta per giudicare la validità del tuo contributo. Sei indubbiameente la rivelazione del festival.
Con affetto.
Grazie Antonio per questa fotografia (chi non ha dovuto trattenere le lacrime alzi la mano)… hai fatto a tutti un bel regalo … Allora vi aspetto davvero; magari mettetevi d’accordo con Pino e Rossella e vi incontrate qui. Se entro il 20 Ottobre accendiamo il camino e assaggiamo i melograni: facciamo una cena con i 77 ragazzi, etc… A presto
Sono una di quei 7 ragazzi – anzi 77, magari!!! – e noi non abbiamo fatto altro che metterci il cuore, tutto il resto lo hanno fatto gli ospiti e il pubblico, in uno splendido incontro fatto di curiosità e apertura che è la base sulla quale si può costruire tutto, sempre. Grazie ancora Antonio noi ti aspettiamo (con Simona e chi altro vorrai) per strapparti qualche altro sorriso! 😉
Complimenti per il bellissimo articolo su Lucera, sono stato anche io presente, grazie al Suo articolo al Festival della letteratura Mediterranea. Congratulazioni per il premio ricevuto e appena possibile, acquisterò il libro premiato.Auguri sempre per la sua attività.Cordialmente, Gennaro Pierro.
Sono una dei “vecchi che ha fatto un passo indietro” , felice per le tue parole che confermano ,se mai ce ne fosse bisogno, che bene abbiamo fatto a consegnare il festival, che è stato come una nostra creatura, a questi nostri cari e giovani amici ,belli ,coraggiosi soprattutto;grazie ragazzi, mi sono emozionata tanto ieri sera alla fine della manifestazione dopo Maram, che è
sempre fantastica e grazie a te Antonio Menna per avere accettato di venire in questo luminoso paese .Cinzia
Grazie per questa cosa che hai scritto, Antonio, e Grazie a tutti questi ragazzi.
vincenzo
Ciao Antonio, comprendo perfettamente la necessità del ritorno alle radici. Dopo sette anni a Napoli, recentemente me ne sono tornato a Varese, nel profondo nord. Non sono più nemmeno un ragazzino. Napoli mi ha vomitato, come altre terre hanno vomitato i ragazzi tornati a Lucera. Esiste una questione meridionale? Certamente. Esiste una questione settentrionale? Altrettanto. Mi piacerebbe che qualcuno se ne accorgesse: provasse davvero a comprendere ed accettare le diversità. Ci sentiremmo meno vomitati, continueremmo a conservare affetto e rispetto per le nostre radici. Liberi di scegliere dove vivere.
@Roberto io davvero non ho capito ancora qual è la questione settentrionale? Sai perché? Perché non vedo milanesi di terza generazione a Napoli, neolaureati di Torino a Palermo, o muratori modenesi a Caserta. E se non li vedo, non capisco quale sia il disagio che vive il nord, terra che pur amo e dove (Milano) ho vissuto e vengo sempre volentieri.
E’ bello leggere qualcosa che riguarda la mia “terra” che non sia brutta cronaca, ma speranza diventata realtà! La mia generazione aveva tanta speranza, ma in tanti siamo invecchiati fuori da questa terra madre senza più ritornare. Sapere che alcuni giovani lucerini sono riusciti a realizzare “il ritorno” da’ sollievo e riaccende la speranza. Enza
Bella, Antò. Mi è piaciuto molto.
…”la storia di un lampo di speranza” che mi piacerebbe fotografare.
Grazie!
Lunedì.
Antonio grazie per il tuo intervento sarà un forte stimolo per coloro che si lasciano vivere,il nostro motto è rinnovarsi tutti i giorni rimanendo fedeli a se stessi,torna a trovarci.Marika Maggi
Grazie Antonio per averci regalato un’ emozione e sopratutto per averci ricordato che questi ragazzi sono la parte migliore di noi. A voi ragazzi, forza…….il futuro è vostro!!!
Non so cosa sia successo stasera. Solito giro su FB saltando di bacheca in bacheca grazie alla curiosità per saperi diversi dal mio. Di click in click mi ritrovo davanti a questa bella pagina di Antonio Menna (ahime, non ti conosco come autore, chiedo venia. Ma quale incantevole sorpresa? Esterefatta leggo il nome di Lucera, il mio paese d’origine, il paese de miei avi. Non ci vado in visita da piu’ di 25 anni, io sono nata a Milano ma Lucera la port nel cuore. Con che gusto mi sono letta di questa bella esperienza e che commozione sentir parlare di questi giovani così volonterosi ed entusiasti. Grazie per avermi fatto venire nostalgia….
Grazie Antonio per le belle parole su Lucera e sui giovani,Lucera e’ il mio paese d’origine, vivo a Pomigliano d’Arco (NAPOLI) da circa quarant’anni, ma sono stata sempre presente nella mia terra, adesso un po’ meno.Amo quella terra, i suoi prodotti, i suoi piatti tipici che non ho mai dimenticato, tutto mi torna in mente e tu hai saputo cogliere tutti gli aspetti più significativi e descriverli con tanta maestria. Grazie ancora e complimenti per il bellissimo articolo e per il premio ricevuto. Maria Assunta
Gran bell’articolo! E grandi i “settantasette”…