Una minuscola pietra nel fango

grammaticaebookSei giorni fa è uscito il mio nuovo libro. Ne ho parlato nel post precedente e non ho molto da aggiungere. Ci sono tre personaggi, molte cose che vedo, quello che sento, ma nulla di tutto questo è più mio.

Quella storia, ormai, è di chi vuole leggerla. Il libro è lì. Io vado per la mia strada, che è già un’altra.

Ma non è di questo che voglio parlare qui. Scrivo per un altro libro, che non è il mio, anche se ci ho messo le mani. E’ un libro nostro.

E’ il libro di Maria Franco, innanzitutto, che mi è parsa amareggiata sul suo blog, e voglio che lavi via la tristezza, perchè lei non se la può permettere.

Io l’ho vista all’opera, in una aula sgarrupata, con il mare nella finestra, sull’isola di Nisida, un carcere minorile. C’era una quindicina di ragazzi molto aggressivi e molto furbi e molto violenti e molto agitati. Uno di questi aveva una pistola tatuata sull’avambraccio e ogni tanto se l’accarezzava. Un altro non parlava mai, e non abbassava gli occhi. Ti fissava annoiato come un leone. Un altro si muoveva molto, e dava al banco e ai muri i pugni che avrebbe voluto dare in faccia a Maria, o alla guardia, o a me.

Perchè una mattina sono entrato anche io -controvoglia e inadeguato – in quella classe, dove Maria insegna da anni a questi detenuti minorenni, che passano qualche ora e rimescolare pensieri, lessico, a tentare di far sparare una penna bic blu, a mangiarne il tappo, e ogni tanto, nella brodaglia irrimediabile, fanno salire a galla una perla, una luce, quella che, in fondo, si cerca.

Una minuscola pietra nel fango.

Ci sono entrato anche io, come ci sono entrati altri otto amici che hanno il vizio di inventare storie. Maria ci ha coinvolto in un progetto di scrittura. Improbabili lezioni, con noi (o almeno io) muti, e attoniti, e lei implacabile. Parlare di libri, e di scrittura, e di narrazioni, e di linguaggi, a una decina di rapinatori o spacciatori o trafficanti quindicenni napoletani.

Provateci.

Alla fine del ciclo di incontri, la stesura finale di un racconto curato dall’autore ma intercalato da frammenti di scrittura dei ragazzi. Racconti (nove) che sono diventati un libro. Nostro, e di Maria innanzitutto. E dei giovanissimi detenuti.

Si chiama “La grammatica di Nisida”. E diciamolo subito: l’incasso va a finanziare per intero le attività culturali nell’Istituto.

Lo si può comprare, dunque, per il valore dei racconti e degli scrittori (c’è gente seria: Viola Ardone, Luigi Romolo Carrino, Daniela de Crescenzo, Maurizio de Giovanni, Alessandro Gallo, Tjuna Notarbartolo, Anna Petrazzuolo, Patrizia Rinaldi) ma anche per dare un contributo economico ad un progetto serio.

Solo che l’acquisto scarseggia, e Maria (e io con lei) ne è amareggiata. Il libro è comprabile via internet, in formato e.book (per chi ha un tablet o un reader) o in formato pdf (per leggerlo semplicemente al pc). Costa poco (circa 6 euro). Si scarica con facilità (basta andare sul sito dell’editore: www.caraco.it) ma pare abbia venduto un numero di copie ridicolo, che rende quasi vano lo sforzo.

Mi ha sorpreso molto saperlo. Ero convinto che l’esiguità del costo, la semplicità dell’acquisto, la qualità del libro e, soprattutto, il valore solidale dell’iniziativa, avrebbero avuto presa.

Mi soprende sempre questa Napoli che ama dipingersi generosa, di cuore, aperta, carnale, solidale, che guarda con disprezzo chi la critica, che invoca le proposte in luogo delle chiacchiere, che se segnali un problemi, ti risponde piccata, e poi quando è il momento, gira la testa dall’altra parte, finge di non sapere, di non capire, finge di non leggere.

Dove sono i filosofi del fare?

Dove sono i savonarola d’accatto?

Saranno lì a lucidare la collezione di figure retoriche. Troppo immersi nella cartolina per vedere che forse potrebbero compiere un piccolo gesto.

Un piccolo gesto anonimo, di quelli dove non compari, dove non ci sono medagliette da appendere al collo.

Un piccolo gesto essenziale, utile e di verità, che costa meno di sei euro, con cui comprare, magari, una scatola di quaderni, o una decine di penne bic da masticare sul tappo negli inverni di Nisida, quando Maria Franco chiederà ancora una volta a quei ragazzi di scrivere un pensiero, un ricordo, una scena.

Perchè che lo compriate o no, questo libro, (e spero ancora che lo facciano in molti) alla fine la certezza è che nel mar mediterraneo della nullafacenza delle anime belle di questa città, Maria Franco, soldi o non soldi, vendite o non vendite, continuerà a lavorare.

Amareggiata ma indomita.

Lasciare o restare? Magari fosse una scelta.

ImmagineSono molti anni che mastico, a bocca amara, la questione del rapporto con le radici. Il legame con il proprio luogo. La rete di affetti. Il desiderio di camminare sulle strade dove sono si è stati bambini, di veder crescere gli amici di infanzia, di battersi per il proprio quartiere, o di sostenere la vecchiaia dei propri genitori.

Vivere nella casa dove ha vissuto tuo padre, e prima ancora tuo nonno.

Prendere l’ombra della grande quercia.

Sento questo tema in prima persona perchè dentro di me è irrisolto. Combatto continuamente tra due tensioni opposte (andare, restare), e non ho mai saputo scegliere (alla fine, scegliendo).

Sia chiaro: non mi unisco all’eterna, e stucchevole, guerra tra chi va e chi rimane. A Napoli, in questo senso, c’è una sfida storica, e ridicola, alimentata da una certa pubblicistica improvvisata.

Chi resta si sente eroe in trincea e accusa chi se ne va di diserzione. Chi se ne va, al contrario, si sente uno buono, con la marcia in più, e accusa chi resta di essere bamboccione, o mediocre.

Io rifiuto questo teatro. Tutte le scelte hanno pari dignità. Ciascuno ha il sacrosanto diritto di andarsi a vivere la vita dove gli pare. Vuoi andare, vai. Vuoi restare, resta. Sono scelte individuali.

Tutto questo , però, vale finchè c’è lo spazio, appunto, per una scelta.

Negli ultimi quindici anni la sceltà non c’è stata quasi più. Andare è un obbligo. Tutto passa per il lavoro, e per la realizzazione di sé. La gente lascia il Sud, parte, anche a malincuore, per lavorare.

Soprattutto a malincuore. Non lo sceglie. Deve farlo.

Dal 1995 al 2008 hanno lasciato il Meridione per il Centro-Nord circa 2 milioni di persone. Di questi, un milione di età compresa tra i venti e i trentanove anni.

Altre 120mila persone lasciano ogni anno l’Italia per l’estero. Il 60 % proviene sempre dal Sud.

In sostanza, ci stiamo svuotando, come Paese, e come Meridione, delle migliori energie.

Alleviamo, facciamo studiare, i nostri giovani, e poi li regaliamo. Li facciamo giocare in un’altra squadra.

Altrove trovano opportunità che qui non hanno. Chance. Riconoscimento.

Il dramma non è solo il loro, che trovano la via, e magari vivono con l’occhio umido della nostalgia, con la fatica di recidere i legami, ma se ne fanno una ragione. Il dramma maggiore è del territorio. Senza le forze migliori, e senza gli strumenti a chi resta, c’è un irrimediabile impoverimento.

Non solo di denaro ma di energie.

È una Spoon River. Non c’è una famiglia che non abbia un figlio o un nipote lontano. Non c’è una famiglia che non pianga questo piccolo lutto. Io credo che questa sia una grande questione sociale del nostro tempo. Come si risolve? Non ho, ovviamente, soluzioni facili, se non quelle che possono nascere dall’analisi sociale, dall’interrogarsi, dall’indagare cause e tirare, quindi fuori, le risposte.

Credo che molto parta dal lavoro, e dallo sviluppo, e dalle opportunità, intersecando il tema del merito, dell’investimento sui giovani. C’è da rovesciare un modello sociale. Il cambiamento non è cosa da salotti, o da iniziative estemporanee, come siamo abituati a fare sull’onda di qualche evento di cronaca.

Non servono le risposte emotive, ci vuole un progetto. Va attivato un meccanismo profondo.

In “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, con un passo leggero, una piccola narrazione, di una piccola storia paradossale e provocatoria, ho provato a mettere in fila i fattori che bloccano i giovani talenti del Sud: mancato accesso al credito, burocrazia, condizionamenti ambientali, corruzione, camorra.

Si è aperto un dibattito ampio, interessante. Spero che sia servito a dare qualche chiave. Il racconto dei problemi, per chi sa leggerlo, contiene anche le soluzioni, e credo che questo sia il principale contributo che un libro, un lavoro culturale, un giornalista, uno scrittore, possano dare al proprio territorio.

Da martedì 19 marzo sarà in tutte le librerie una mia nuova storia.

Si intitolerà “Tre terroni a zonzo – Lasciare Napoli o restare?”.

Parlerò sempre dei giovani del sud, ma da un’altra angolazione, quella, appunto, della migrazione.

Andare o restare?

Viene pubblicato anche questa volta da Sperling & Kupfer. é un’ideale continuazione del primo libro. Ci sono la stessa ambientazione, lo stesso stile, una lingua semplice, una tonalità lieve per tentare, però, di indagare una questione complessa. I protagonisti, questa volta, sono tre: Ilaria, Michele, e Diego Armando. Si laureano brillantemente, nei tempi giusti, e col massimo dei voti. Ma la sera della festa sale l’ombra della domanda terribile: “e adesso? che si fa?”.

Ilaria e Michele non hanno dubbi. Se ne vanno da Napoli “Qui si muore”, dice Ilaria, “non c’è futuro”. Lei va a Milano, Michele a Londra. Lì trovano lavoro, ma non solo. Diego Armando, forse anche per il nome che porta, vuole restare. Vuole restare a Napoli. Per lui, il cammino sarà più duro. Il libro racconta le storie parallele dei tre, nei primi due anni dopo la laurea. E’ una storia di emozioni, di vita quotidiana. Una narrazione. Ma traccia anche una mappa. Ha una conclusione che apre alla speranza, e dice, in fondo, che la strada per restare c’è.

Ci può essere.

Spero che questo libro, come il precedente, sia accolto con benevolenza e attenzione.

E che possa essere un contributo utile per aprire uno squarcio su una grande questione sociale, e trovare insieme la via per affrontarla.

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