Se una coppia fa colazione ai tavoli di un bar, e ciascuno di loro legge in silenzio, uno accanto all’altra, un giornale o un libro, li guardiamo e pensiamo che belli.
Se una coppia fa la stessa cosa ma con in mano gli smartphone pensiamo che orrore.
Eppure io sullo smartphone leggo il giornale o i libri.
Oggi Michele Serra, nella sua Amaca su Repubblica, ci spiega che esiste una vita reale e una vita digitale. E che, ovviamente, quella autentica è la prima. Perché tocchi le persone, le guardi negli occhi. Mentre con il dannato apparecchio tutto diventerebbe inumano.
Aggiunge che una pianta irrigata con un sistema automatico è meno in salute di una pianta innaffiata a mano. Non so da dove evinca questa certezza, così romantica ma – mi perdoni Serra, che con questo cognome di piante e innaffiatoi… – così sciocca.
Non so se ci sono evidenze scientifiche per dire che i fiorellini preferiscono la mano dell’uomo a quella dell’irrigatore (o se si accorgono della differenza). Ma questo ragionamento mi sembra nascondere un pensiero che pare antico ma è vecchio, e tiene ancorato questo Paese a un destino di nostalgia e recriminazione, con i piedi nell’argilla e la testa rivolta all’eterno bianco e nero.
Non è questione di fiori e piante, naturalmente. Ma di senso della modernità.
Salto di tema e penso ad altre cose sentite ieri, durante un incontro pubblico. Si parlava di lavoro come diritto e di questi giovani che non protestano nonostante gli venga negato.
Alzate la voce, fatevi sentire, contestate!
Mi sono chiesto, lì per lì, ma contro chi e contro cosa? Contro lo Stato e contro i politici, evidentemente. Ma sono loro a dover “dare” il lavoro? O non è l’economia, cioè quel tessuto di produzione e intrapresa che ti rende necessario e quindi utile e dunque crea il lavoro, non diritto ma opportunità?
Capirei se allo Stato (e ai politici) si imputasse la colpa di non rimuovere gli ostacoli (burocrazia, credito, fisco, obesità normativa, corruzione, criminalità) allo sviluppo. Ma dire che bisogna protestare per il diritto negato al lavoro mi ha ricordato, anche qui, la nostalgia di un mondo andato. Quando si chiamava lavoro, l’assistenza. Quando servivano dieci persone e se ne assumevano cento (in modo clientelare), tenendone novanta a non fare nulla o quasi, caricando tutto sul debito: quello dei sistemi previdenziali e quello delle aziende pubbliche e quello del bilancio dello stato.
Un enorme mostruoso debito costruito da tutti, dall’usciere al dirigente, e che oggi chiamano diritti perduti, come se quel mondo di sprechi e piccole rendite parassitarie, costruito sulle generazioni successive, fosse lecito e non dannato.
Non ho nostalgia di quel tempo, quando le piante si innaffiavano a mano. Non ho alcuna nostalgia di nulla.
E amo il mio smartphone, cioè il mio sguardo sul futuro, la mia voglia di innovazione e trasformazione, il piacere di fare colazione con un amico e di compulsare insieme il cellulare, per sfottere il terzo nostro amico, che magari in quel momento è a Londra e con una videochiamata fa colazione insieme a noi.
Questa idea che gli aggeggi elettronici sono sempre videogiochi con cui uno, ipnoticamente, si assenta dalla vita reale per galleggiare nella second life di un nerd un po’ autistico, non fa nemmeno più ridere né tenerezza. Comincia a fare incazzare perché contiene tutta la sabbia mobile su cui periodicamente appoggiamo questa strana italiana ansia di cambiamento, che qui è sempre uno sguardo all’indietro, mentre si cambia in un solo modo: in avanti.
Lo scrittore Joseph Conrad, mentre cercava ispirazione, si tormentava: “Come spiego a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”.
Io, più modestamente, vorrei che qualcuno spiegasse a Michele Serra che quando guardo lo smartphone leggo Joseph Conrad.
Uso lo smartphone per lavoro, per svago e ebbene si: per leggere libri o articoli di giornale.
Bellissimo articolo, condivido tutto!