Stefano Lavori e Gomorra

Qualche anno fa – era il 2006 – scrissi un racconto che, secondo me, ha un senso rileggere oggi, alla luce del dibattito che si è aperto su “Stefano Lavori”.

Fu pubblicato sul blog collettivo di nazione indiana.

Fu una volontà esplicita dello stesso Roberto Saviano, che ho conosciuto nella sua prima vita, quella di coraggioso cronista di strada. Lui lo lesse in mail e volle farlo pubblicare.

Lo ripropongo qui, sperando che ci aiuti a continuare la nostra riflessione collettiva (a proposito, siamo arrivati a 300mila contatti, una platea enorme; siamo noi, ci siamo autopromossi, abbiamo costruito uno straordinario esperimento di comunicazione collettiva. Più che del mio post, contano le centinaia di commenti. Un mondo di lettori/attori che diventano protagonisti. C’è da riflettere).

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Giada e Gomorra

“Me lo presti questo libro?”. Giada è in piedi davanti alla mia scrivania, con la sua solita borsa larga, color crema, a tracolla e un paio di stivaletti corti e mosci, come si portano adesso, e il puntino di brillante conficcato nella narice sinistra, e i capelli tinti di rosso fiamma, e l’orologio sul polsino della maglia in pile quechua comprata da Decathlon Giugliano a nove euro e novanta, e un cinturone di cuoio nero con medaglione a forma di piramide, e un jeans chiaro con una catena luccicante d’argento che scende dalla tasca destra e si allunga sulla coscia.
Giada ha gli occhi blu disegnati da Walt Disney. Li ha prelevati, via dna, dalla mamma, Laura, che conosco da 34 anni, da quando io avevo 4 anni, e lei pure. Laura è stata la sorella che non ho mai avuto (non che l’abbia mai desiderata); mi sono turbato, intorno ai dieci anni, quando le ho visto spuntare due piccole dune sotto la canotta; mi sono disturbato quando ho visto comparire sotto alle sue ascelle una peluria nera e morbida; mi sono contratto quando ho sentito che era una femmina. Mi sono amareggiato quando l’ho vista fuori della scuola abbracciata a uno della quinta. Mi sono inorgoglito quando mi ha fatto una furiosa scenata di gelosia dopo aver saputo che uscivo con Paola.

Mi sono commosso quando è stata una notte intera nella mia stanza, dopo la morte del padre, a piangere, a ridere, a stare zitti, a ricordare, a vedere l’alba, la prima alba senza il padre, a fare una colazione pigra, stanchissima, come dopo i veglioni. Mi sono tremate le gambe, molli, quando a 18 anni, io e lei insieme, abbiamo fatto per la prima volta in assoluto l’amore. Continuando a farlo per mesi senza dirci nulla e senza mai “metterci” come ci si metteva e ci si lasciava a quell’età. Mi è mancata molto quando ha deciso che non dovevamo vederci più perché la cosa la mandava in confusione. Mi si è strozzato il respiro nel lungo tempo senza di lei. Mi è sembrato un secolo quando, anni dopo, con vite formate, tutto sommato definite, è ricomparsa e mi ha sorriso. Mi ha fatto felice quando ha voluto che fossi io a portarla all’altare, per sposare Giuseppe. Ed ero lì, quando aveva appena partorito Giada, con quegli occhi blu che stamattina mi sgrana davanti e mi chiede di prestarle un libro, quel libro.

Giada vuole Gomorra. La sua richiesta mi lascia di sasso. Giada ha 14 anni, fa la prima al liceo scientifico Segrè di Marano; Marano è un bel paesone in provincia di Napoli: 60mila abitanti stretti stretti tra la collina borghese e guardinga di Vomero-Arenella-Camaldoli e la pianura plebea e rumorosa di Chiaiano-Piscinola-Scampia. Giada ha perso un anno. In questi casi si dice che zoppica. Ha un po’ di problemi a scuola, la mamma è preoccupata e mi ha chiesto di aiutarla. Io le do ripetizioni di qualcosa ma lei mi prende poco sul serio. In realtà mi incanto nei suoi occhi blu e penso a come sarebbe stato avere una figlia così. E sposare Laura.
Chiedo a Giada perché vuole Gomorra. E lei mi risponde: “per leggerlo”. Già.

Ma mi chiedo perché Giada vuole leggere; perché vuole leggere un libro; perché vuole leggere Gomorra.
Giada è una di quelle ragazze che a Marano girano sul motorino, in tre (lei è quasi sempre quella di mezzo), senza casco, il sabato pomeriggio; una di quelle ragazze che a Marano stazionano fuori della pompa di benzina di Corso Europa oppure sulle panchine della via principale o sul muretto della scuola, fumando marlboro light. Quando non passa il tempo così, Giada va al centro commerciale con le amiche. Ci arriva in motorino. Prima andava alla galleria Auchan di Mugnano, che prim’ancora si chiamava Città mercato. Prendeva un supplì, un pezzo di pizza da spizzico e camminava tra Carpisa e Pezzuto. Da quando hanno aperto l’iperAuchan di Giugliano, Giada va lì e passeggia nell’enorme corridoio tra le casse e i negozi, fa le vasche e struscia avanti e indietro.
Non ho mai visto Giada leggere un libro. L’anno scorso le proposi “tre metri sopra il cielo” di Federico Moccia; speravo di conquistarla alle parole. Lei mi fulminò dicendo che se a scuola avessero scoperto che stava leggendo un libro (così) l’avrebbero sfottuta per almeno sei anni (quanto mancava al diploma, secondo i suoi realistici calcoli).
Oggi, però, di fronte alla mia scrivania, Giada mi chiede Gomorra. “Che ne sai di questo libro?”, le chiedo. “Lo conoscono tutti”, mi risponde fulminea.

Mi ricordo improvvisamente che Giada, quasi due anni fa, aveva sul desktop del suo cellulare la foto di Cosimino Di Lauro in manette. Cosimino Di Lauro è il figlio di Ciruzzo ‘o milionario, il boss di Scampia e Secondigliano. L’erede al trono. Cosimino è quello che ha scatenato la guerra contro gli scissionisti. Fu arrestato di notte, nel Terzo mondo, un quartiere di Secondigliano. Fu portato al Comando provinciale dei Carabinieri di piazza Carità. Nel cortile della caserma si radunarono circa 400 persone per salutarlo. Quando uscì in manette era l’alba. Stretto tra i carabinieri in pettorina blu, scese i gradini con flemma e a petto in fuori. Con i capelli lunghi e lisci tenuti da una coda di cavallo, con un cappotto nero di pelle e un dolcevita di lana, sempre nero, guardò dritto negli obiettivi. Un fotografo fissò gli occhi di ghiaccio di Cosimino, la sua bocca serrata, la sua smorfia di potere. Quello scatto finì sui giornali. E su internet. E comparve sui cellulari dei ragazzi di Napoli, e di Marano. Perché? Perché Cosimino era “tuost”. Lo disse anche Giada. “Cosimino è tuost, ed è pure bono”, aggiunse. Un rampollo di camorra, un boss sanguinario che a 25 anni ordina una carneficina, dicendo (espressione raccolta da una intercettazione) di voler scatenate la guerra mondiale contro i traditori (gli scissionisti); un capo banda finisce sugli schermi dei cellulari degli adolescenti. Come un poster, come la foto di Simon Le Bon ai miei tempi. Un idolo. Un bono irraggiungibile. Un tuost, uno tosto. Un camorrista.

Oggi Giada mi chiede Gomorra. E io provo a capire cosa le interessa. “I guaglioni lo stanno leggendo tutti – mi dice -; a scuola se lo passano”. Prendo il libro, lo sfoglio rapidamente facendo suonare le pagine. Mi chiedo che cosa di quel grosso grumo di sangue possa colpire la fantasia di una ragazzina. “Ma lo sai di che parla questo libro?”, le chiedo. “E come non lo so”, risponde. Me lo toglie di mano e va a cercare una zona precisa del libro. Fatica a trovarla. Poi la vede. Legge. Ride. Sono i soprannomi dei camorristi di Secondigliano, di Miano, del Terzo Mondo, del Don Guanella, di Scampia, di Piscinola, anche di Marano. I soprannomi di morti e vivi che hanno fatto la guerra e che a un certo punto, morti o vivi, si sono placati. “S’mor, s’mor”, dice, ridendo, Giada, con involontaria, agghiacciante ambiguità. Si muore, si muore…si muore dal ridere. “Me lo presti, ià”, ripete Giada, implorandomi con gli occhi blu sgranati, proprio quelli della mamma.

Chiamo Raffaele, vicepreside di liceo, insegnante di lettere, amico di infanzia, compagno di letture, collega di cronache giornalistiche e di timidissime esplorazioni anticonformiste abortite in postifissi-mogliagiate-amantipèrete. Gli chiedo di Gomorra. “Eccezionale”, dice. “Lo so”, replico, “ma non è questo che mi interessa”. Gli chiedo se gli risulta che il libro va molto tra i ragazzi, tra gli adolescenti di Marano. Lui mi dice di sì. Senza alcuna titubanza. “A questi ragazzi, la camorra li prende nella testa, nei nervi; la camorra gli piace”, mi dice Raffaele, “ne parlano con gli occhi che luccicano. Questi, a 14, a 15 anni, non comprano il Corriere dello Sport o il Guerin Sportivo, come facevamo noi; questi comprano Cronache di Napoli e stanno ore a guardare le capuzzelle”.

Le capuzzelle, nel gergo dei cronisti di nera (io e Raffaele abbiamo scritto, in due, almeno seicento pezzi di nera per Il Mattino tra il 1988 e il ’93) sono le foto tessera dei morti ammazzati e degli arrestati che i giornali pubblicano a margine dei pezzi. Un tempo, in cronaca, si mettevano in un angolo della pagina, non troppo in vista e mai troppe insieme. “Sennò sembra un cimitero”, ci ammoniva Franco, il caposervizio che faceva il menabò, la gabbia grafica della pagina, all’epoca disegnata con matita e righello. Oggi, Cronache di Napoli, un quotidiano di quasi tutta nera, che vende migliaia di copie tra Napoli e la provincia, pubblica ogni giorno, in apertura di prima pagina, decine e decine di capuzzelle. Un mattinale di morti, arresti, denunce tutti corredati di foto tessera messe una accanto all’altro con i nomi, l’età, il soprannome. “I ragazzi guardano le capuzzelle – mi dice Raffaele – e provano a riconoscere le persone; si fanno vanto di conoscere il cugino di tizio, il fratello del cognato di caio, o addirittura uno di questi in persona. Ne seguono ammirati le avventure. Recitano a memoria il codice penale; per loro l’associazione è il 416 bis, l’articolo del codice penale del concorso in associazione mafiosa. A volte penso che se la Panini facesse l’album con le capuzzelle dei camorristi, dalle nostre parti, farebbe soldi a palate”.

Resto al telefono in silenzio. Il silenzio al telefono è impossibile. Un apparecchio fatto per parlare e per ascoltare non consente pause, non tollera i silenzi. E infatti sento Raffaele che, dopo qualche secondo, dice: “pronto? Pronto? Ci sei?”. Lo rassicuro e gli dico che tutto questo non smette di sconcertarmi. Lui ne sorride. “Ma non ti ricordi della suoneria del camorrista?”
Il camorrista è un film di Giuseppe Tornatore, con Leo Gullotta che fa il commissario di polizia e il grugno feroce e grottesco di Ben Gazzara che fa Raffaele Cutolo. Tornatore girò il film sulla base di un libro di Joe Marrazzo, grande cronista di nera, padre dell’attuale presidente della Regione Lazio; una biografia del camorrista di Ottaviano che, negli anni Settanta e Ottanta scatenò una delle più feroci guerre di camorra che si ricordino.

Questo film – bello teso nero – è stato girato nel 1986. Giada non era ancora nata. E io facevo ancora l’amore con la mamma. Il film, al cinema, non ebbe grande successo ma divenne, improvvisamente, un cult per le televisioni private napoletane che lo mandano in onda, ancora oggi, in continuazione.
Io l’avrò beccato almeno duecento volte.
La colonna sonora del film è una musica che sale nei timpani e che scandisce, come un battito, “tatatà-tatàtatàtatà”. Questa musica è diventata, qualche anno fa, una delle suonerie più diffuse sui cellulari dei ragazzi di Napoli e provincia. “Non ti dico le risate che si facevano in classe – dice Raffaele – qualcuno aveva messo in coda alla suoneria anche la voce di Gazzara che urlava ‘io sono il professore di vesuviano’ oppure ‘o malommo è nu guapp e carton’ “
La suoneria del professore di vesuviano. Me ne ero scordato. Un film tragico e nervoso sulla camorra, sulla morte, sulla follia, sull’appartenenza, dentro un paradossale rovesciamento, diventa un simbolo del mondo stesso che intendeva aggredire, mostrandolo nella sue crudezza.

E proprio la crudezza diventa icona pop, epopea.
Che giostra incredibile quella dove sali per girare verso destra e che, centrifugando, ti porta improvvisamente nelle direzione opposta.
Del resto, ce lo racconta Gomorra stesso che i guaglioni hanno il mito di Scarface, di tony montana, della villa imperiale, del naso che schiatta di cocaina, di strafighe strafatte. E la voce roca di Marlon Brando? Quante tempo, noi, sui giornali, abbiamo chiamato i boss di camorra, padrini?
“Questi fanno come con le pigne; sfogliano, sfogliano, lasciano cadere quello che non gli interessa e si prendono il cuore, i pinoli”. Raffaele è caustico nel ricordarmi di come tutto, qui, viene macinato e disperso. Film, canzoni, notizie. La denuncia costruisce miti, la narrazione fabbrica gli idoli, il bestseller moltiplica la celebrità e l’allume di ombelico del mondo; l’insieme produce gli stili, echeggia i linguaggi, affresca i passi quotidiani, parla di noi.
Di loro e quindi di noi.

Gomorra è finito sulla giostra. I ragazzi che gli si illuminano gli occhi quando parlano di camorra se lo passano come fanno con Cronache di Napoli con le capuzzelle, come si mandavano via mms la foto di Cosimino con il cappotto di pelle nera, come si schiattano di risa quando trilla la suoneria del professore di vesuviano. Gomorra è lo specchio della loro identità di gruppo, identità di zona. Esistono, se ne è accorta tutta Italia.
Come si fa coi poster: li attacchi al muro e segni la distanza tra quello che sei e quello che potresti essere, e misuri quanto ti manca, guardi l’orizzonte, con la vertigine del bordo. Un passo e ci sei dentro ma rimani di qua. O forse no. Una linea sottile che mette ansia o che rassicura.
Giada mi chiede Gomorra e io glielo presto.

Novantamila

Dunque, è successo questo: ci sono 90mila persone che ieri e oggi sono venute su questo blog a leggere un post, quello su un ipotetico Steve Jobs a Napoli.

Circa 80mila di questi lettori provengono da Facebook dove, pare, che il link si sia aperto come una macchia di petrolio in mezzo al mare.

E’ un numero incredibile, almeno per i miei standard: ero abituato ad avere un traffico medio di cento visitatori, nei giorni in cui postavo.

In tutto, da quando ho messo il blog on line, avevo avuto 3mila visite. Adesso 3mila visite ce le ho ogni quarto d’ora.

Sono impressionato, lo confesso.

Ieri ho scritto quel post intorno all’una, mentre la mia fidanzata metteva troppo peperoncino in cento miseri grammi di spaghetti aglio e olio. Ho lasciato la scrittura a metà, mi sono infiammato la bocca con la pasta, ho chiesto a lei la cortesia di non farmi lavare i piatti (tocca a me quando lei cucina), mi ha concesso con la solita generosità un quarto d’ora, ho chiuso il post, l’ho pubblicato, l’ho linkato, come faccio sempre, sul mio profilo Fb e sul mio contatto Twitter, e poi sono sceso.

Con la mia twingo del 1996 siamo andati a Poggioreale (nerissimo quartiere della periferia di Napoli) a comprare 61 battiscopa bianchi di legno per una nuova casa nella quale andremo a vivere, credo, nel 2018, quando sarà finita. Abbiamo caricato i battiscopa lunghi 2 metri e quaranta nella twingo, abbiamo legato il portellone semi aperto con lo spago e ci siamo diretti, così, sui sanpietrini di Napoli, verso i quartieri spagnoli, tra scooter che ci ronzavano intorno come vespe, passanti che davano manate sul cofano dicendo “uanemaeddio”.

Scaricata la merce e tornati a casa, apro il computer e mi accorgo che la mia faccia tonda era ovunque. Venticinque miei amici di Fb avevano condiviso il link; a loro volta i loro amici lo hanno condiviso, e così hanno fatto gli amici degli amici. Una sorta di vendita multilevel. Ho guardato le statistiche del blog e alle 21 e 48 di ieri diceva 7662, alle 21 e 55 diceva 7994, alle 22 e 09 diceva 8474. Alcuni giornali on line mi hanno chiesto l’autorizzazione a pubblicarlo, su twitter succedeva lo stesso. Felice (scrivo per essere letto) me ne sono andato a dormire sapendo che Internet è così: si gonfia e si sgonfia in due ore.

Vado a letto famoso e mi sveglio sconosciuto. Amen.

Invece stamattina è continuata l’impennata. Alle nove, avevo 17mila visitatori; alle diciotto, 90mila. Faccio l’errore di dirlo al mio amico Stefano (Steve, per gli amici) e lui salta: “devi monetizzare, cazzo, devi monetizzare”.  Io non so come si fa a monetizzare. “Per esempio spara la copertina dei tuoi libri sul blog, falli vedere, così li vanno a comprare, cazzo, cazzo” (lui dice spesso cazzo perchè guarda molti film di Tarantino). “Scrivi qualcosa, cazzo, scrivi un post nuovo, menaci dentro i libri, cazzo”.

Ma io non lo so fare.

Scrivo questo post solo per darvi conto della mia emozione. Sono molti anni che scrivo, e scrivo di tutto. Da venti ho la tessera dell’Ordine dei giornalisti in tasca. Sono un precario della comunicazione, come tantissimi. Articoli a venti euro, uffici stampa, libri. Non avevo mai avuto tanti lettori, credo. Almeno mai tanti tutti per me.

Ci sono anche centinaia di commenti, in giro. Moltissimo sono complimenti, altri no, alcuni addirittura insulti. Si passa dal “sei un genio” al “sei un coglione”.

Non torno sul contenuto del post, non avrebbe senso. E’ lì. Dico solo che era un raccontino semplice, anche un po’ banale. Un modo paradossale per dire alcune cose. E’ evidente che non si possono paragonare gli Stati Uniti all’Italia, la California alla Campania, il 1976 ai giorni nostri. Mi sono concesso un po’ di licenze, ma il fine è creare una suggestione, che mi pare riuscita.

E’ chiaro che anche dalle nostre parti qualcosa, e qualcuno, riesce (meno male). E’ anche chiaro che certi ostacoli ci sono al Sud come al Nord (ma io conosco il Sud). Quello che forse non è emerso con abbastanza chiarezza è che io non sono contro le regole (le partite Iva e la sicurezza sul lavoro) ma contro la corruzione, che di queste regole si fa gioco, e che nessuno in Italia affronta con decisione. Sono invece contro la retorica del fare: fai un cazzo se il contesto non ti sostiene. Da soli non si va da nessuna parte. Puoi essere anche un genio, puoi essere folle, e affamato, determinato e coraggioso, ma se quello che si muove intorno a te non t’aiuta, o cambi il contesto o te ne vai.

Ecco.

Ah, volevo anche dire che mica tutti i vigili urbani sono corrotti. Ci mancherebbe altro, che domani mi ritrovo fermato ad ogni posto di blocco. Era solo un esempio.

E poi vi dico pure che i miei libri si chiamano Cocaina & Cioccolato e Baciami molto. Sono due romanzi pubblicati dall’editore toscano Cicorivolta. Sono bellissimi.  Dentro c’è, in controluce, molto di quello che ci siamo detti qui. Sono in vendita, sia sul web (cercate su Google) che nelle librerie Feltrinelli.

Andate e comprate (ho monetizzato, cazzo, ho monetizzato).

Grazie tante, e per davvero, ai 90mila (che sono diventati 100mila) che mi hanno onorato della presenza sul blog.

Adesso lasciateci di nuovo soli. Me e i miei cinquanta lettori affezionati.

 

Se Steve fosse nato in provincia di Napoli

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Mettiamo che Steve Jobs sia nato in provincia di Napoli. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi.

Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare.

Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”.

I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano.

Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi?

Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista a Napoli che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”.

I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare.

Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”.

Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro.

Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”.

I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti.

La Apple in provincia di Napoli non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

A chi vuoi che importi?

Ieri è stato giorno di notizie. Due, in particolare: la terribile tragedia di Barletta, dove un palazzo si sgretola e travolge un gruppo di operaie al lavoro in uno scantinato, trasformato in una fabbrica tessile, uccidendone cinque; e l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

Stamattina ho dato una occhiata alle prime pagine dei giornali italiani, e sono rimasto prima stupito, poi indignato. Ne ho esaminate quattordici, quelle dei principali quotidiani italiani.

Quattro grandi quotidiani non mettono la notizia della tragedia di Barletta in prima pagina.

Altri quattro la mettono, ma in minuscoli box, a piede di pagina o in un blocco notizie, come fosse un fatto minore.

Altri cinque la mettono con un po’ di evidenza, dedicandogli anche una foto, un taglio centrale o basso,  non in apertura.

Uno solo ci fa l’apertura, considerandola la notizia del giorno.

Il quotidiano che fa l’apertura sulla strage di Barletta è l’Avvenire, a dimostrazione, forse, che ci è rimasta solo la Chiesa a sentire, per certi versi, i drammi veri di questo Paese.

Niente notizia in prima pagina per il quotidiano comunista (sic) Il manifesto, che rimane indifferente alla morte sul lavoro di cinque operaie! Boxino indifferente per Il Fatto, che preferisce altri fatti ( i soliti: magistrati, ruby, fede) e per l’Unità (povero Gramsci), che magari domani ci ripensa e apre sul richiamo di Napolitano.

I grandi quotidiani nazionali che snobbano la tragedia e la confinano nelle pagine interne sono  Repubblica, Libero e il Giornale, a dimostrazione, per una paradossale convergenza, che sono tutti e tre così immersi nella furiosa partigianeria da non riuscire, ciascuno per la sua parte, a vedere il mondo, e a raccontarlo con uno sguardo lungo. Per loro, il crollo di un palazzo su un sottoscala dove lavoravano, senza misure di sicurezza, decine di donne (di cui cinque hanno perso la vita) non merita la prima pagina.

Repubblica addirittura mette un servizio a pagina 21, dopo aver dedicato fogli e fogli ai due ragazzi assolti, a Fede, a Mora, a Marchionne, a Bossi, a Berlusconi.

La maniera di trattare i fatti del mondo, l’importanza che si dà agli avvenimenti, la gerarchia della notizia sono elementi fondamentali per capire una società. Dall’analisi di come i principali  quotidiani italiani hanno trattato la tragedia di Barletta credo emerga molto sia sulle condizioni morali del nostro Paese che sullo stato di salute dei media.

Abbiamo una nazione eticamente frullata, e abbiamo media faziosi, volgari, pettegoli, scandalistici, vacui. La televisione, innanzitutto (nessuno speciale su Barletta, decine di dirette su Perugia). Ma anche i giornali. Ormai nelle trasmissioni tv si fanno i dibattiti tra i giornalisti di destra e i giornalisti di sinistra. Quasi nessuno più si preoccupa di separare i fatti dalle opinioni. E’ pressoché sparito il giornalismo di inchiesta. I brillanti cronisti di giudiziaria si limitano a copiare le ordinanze di custodia cautelare, senza degnarle di un approfondimento, senza contrapporre accusa e difesa, spacciando la pubblicazione di telefonate personali come diritto di cronaca.

Paginate intere si costruiscono sui fantomatici retroscena, che significano tutto e niente. Il pensiero critico si è diluito in un’abnorme pastetta collettiva. Dire quello che conviene, e non quello che è giusto.

In una Italia che somiglia ai suoi giornali, i giornali peggiorano le cose. Incartano i difetti più irritanti degli italiani, li alimentano, non aiutano il Paese a tirarsi fuori dalla secca dell’inciucio, del familismo, della marchetta, della mediocrità; non aiutano a ritrovare un equilibrio critico, uno sguardo fiero; non fanno protagonismo dei problemi veri, delle tragedie reali.

Non raccontano l’Italia autentica, trasformano la cronaca in una eterna soap, il dibattito politico in un continuo minuetto, la giudiziaria nel tintinnìo sinistro del pettegolezzo pruriginoso, e preferiscono aprire con il volto in lacrime di una ragazza americana assolta dall’accusa di omicidio, e dimenticare a pagina ventuno la strage di cinque operaie sepolte da una pioggia di pietre.

Del resto, “a chi vuoi che importi?”.

Musa e rifugio

di Antonio Menna

Artisti, ma mica fessi. Un po’ come i frati e le suore. Avranno pure fatto voto di castità ma non rinunciano alla bellezza. La sublimano, riempiendosi gli occhi invece che le mani. Fate caso ai monasteri. I posti più belli, gli intrecci più arditi di venti e sole, e c’è un convento. Religiosi, sì, ma mica fessi. Così l’artista, che sarà pure maledetto e bohemienne e disperato e vagamente depresso e un po’ triste e introverso e introspettivo e tormentato e cupo e inquieto e scapigliato e tutto perso nei suoi pensieri; sarà pure impegnato a pensare alla vita, più che ad agirla. Ma meglio esserlo in un posto bello, che brutto.
Non è quindi un caso che ci siano tracce di scrittori in ogni oasi. Raccontano il baratro ma cercano il paradiso. Scavano la parte oscura della vita. Ma intanto meglio godersela. Non c’è uno scrittore che, per cercare ispirazione, abbia mai fittato un basso a Piscinola (quartiere di case e niente più alla periferia di Napoli). Ma a Capri sì. Perchè ritirarsi dal mondo è già dura: il tormento pesa e l’inquietudine affligge. Meglio Capri che Soccavo (quartiere di case e niente più alla periferia di Napoli).
Deve averla pensata così il buon Camille. Era di bassa statura, e la cosa gli dava qualche noia. Amava la vita, ma questa, evidentemente, non lo ricambiava. Quando lo videro, i capresi lo battezzarono subito “‘o francesiello”, perchè era piccolo e cortese. Camille Du Locle, librettista d’opera, fu uno dei primi scrittori a scegliere l’isola azzurra come personalissima oasi. Decise di ritirarsi a Capri alla bella età di 44 anni, nel 1876. Oggi, a quell’età, sei appena uscito dalla casa paterna. All’epoca avevi fatto tutto quello che potevi. E Du Locle qualche passo nel giardino delle arti lo aveva mosso. Direttore dell’Opera di Parigi, librettista famoso, scrisse prima il Don Carlos per Verdi, e poi suggerì allo stesso Verdi il soggetto per l’Aida. Opere maestose per un librettista bassino, che passava inosservato. Un francesiello che a Capri costruì Villa Certosella a via Tragara e si ritirò sulla bella vista senza lasciare molte tracce di sé. Perso nella bellezza che non aveva. Tutt’altra storia, quella di Axel Munthe. Medico, scienziato, scrittore e bell’esempio di maschio vulcanico, Munthe, svedese, scelse una vecchia cappella ad Anacapri, vi costruì una villa con una straordinaria veduta (Villa San Michele) e ci scrisse su un romanzo – La storia di San Michele – dove ha raccontato, in un esempio unico di “biografia del proprio sogno realizzato” – la costruzione laboriosa e amorevole di questa villa straordinaria, donata poi allo Stato svedese e diventata, negli anni, un’attrazione per l’isola. La attraversò ad episodi, invece, Norman Douglas, che venne a Capri a più riprese fin dalla fine dell’Ottocento. Prima comprò una villa a Napoli, poi si trasferì sull’isola. Piuttosto sfortunato in amore, molto cornificato dalla moglie Elizabeth, peraltro sua cugina, ne divorziò, ricavando da queste e altre disavventure quella che a Napoli si chiama “brutta nominata”. Fu processato a Londra per molestie sessuali su un ragazzo di sedici anni, e anche a Capri – voce di popolo – pare che non disdegnasse alternare compagnie femminili a quelle maschili. L’isola, si sa, è tollerante, come il mare. Che però ha la risacca dell’inciucio.
Douglas trasfigurò Capri in una isola immaginaria, Nephente, che mise come sfondo ad uno dei suoi romanzi più fortunati, Vento del Sud. Lo scrittore inglese fu legato a Capri da un amore sincero, visse a Villa Caterola, poi a via Tragara. Ne scrisse tanto e contribuì a farla conoscere nel mondo. Non è azzardato sostenere che fu sulle tracce di Douglas che una intera generazione di scrittori decise di scoprire Capri, e più in generale la meravigliosa fiaba del sud Italia. Edwin Cerio, Compton Mackenzie, Graham Green fu lo straordinario trittico di scrittori che elesse Capri a dimora, a musa, a circolo. Il primo, architetto e progettista di tante ville, ha scritto molto su Capri ma soprattutto ha animato la vita culturale dell’isola, ospitando letterati e poeti (Pablo Neruda, su tutti) e costruendo un mito prim’ancora che un luogo. Fu sulle tracce di Cerio che Mackenzie, scozzese, baronetto, scrisse e pubblicò due romanzi a Capri e su Capri (Vestal Fire e Donne pericolose). Mackenzie, in realtà, non amava Capri in quanto tale ma in quanto isola. Aveva nel sangue la sua Scozia, ambientò le sue migliori commedie alle Isole Ebridi, si costruì una casa sull’isola di Barra, dove fu sepolto dopo la morte. In tutto questo tormentato amore per le isole, trovò a Capri un pezzo della terra che amava, e si riconobbe, la riconobbe, e la visse totalmente, abitando Villa Caterola, poi Villa Il Rosario, poi Villa La Solitaria, sulla passeggiata del Pizzolungo. Comprò una casa a Cetrella, che lasciò quando la nostalgia per la Scozia prese il sopravvento.
Graham Greene, invece, se non viaggiava, non scriveva. Doveva nutrire il suo immaginario. E per questo non trovò mai pace. Arrivò a Capri negli anni Quaranta. Aveva già scritto I naufraghi e La roccia di Brighton, aveva avuto successo e riconoscimenti e girava il mondo per trovare spunti, lampi, visuali, storie. Da Capri prese solo il relax perchè se ne andò senza lasciare tracce, se non la memoria di esserci stato.  Ben altra intensità riservò a Capri Curzio Malaparte, il controverso scrittore autore di “Kaputt” e di quello straordinario ritratto di Napoli che fu “La pelle”. Malaparte arrivò a Capri nel 1936 e due anni dopo era già al lavoro per costruire la sua splendida villa, sulla panoramica del Pizzolungo, in seguito set cinematografico e poi chiusa al pubblico.
C’è anche chi a Capri ci è passato giusto un po’, ma poi l’ha raccontata con straordinaria efficacia. Lo ha fatto Aldo Busi, scrittore bresciano, letterato così robusto da doversi smarrire, ogni tanto, nelle lande televisive per ridimensionare una grandezza così poco contemporanea da risultare imbarazzante. In uno dei suoi tanti libri di memorie e viaggi (per la precisione quello che si intitola bizzarramente, ma non troppo, “Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo”), fa un ritratto di Capri che andrebbe ritagliato e appeso al muro, non fosse altro che perchè segue un omaggio alla mamma tra i più teneri, e per fortuna poco celebrati, della narrativa contemporanea.
Tutt’altra incursione caprese è quella di Valerio Massimo Manfredi che, nel romanzo storico “L’Ultima legione”, ci porta sulla Capri di 1529 anni fa, una terra in mezzo al mare dove fu tenuto prigioniero Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d’Occidente. Un’isola fedelissima e antica, ricostruita minuziosamente eppure stranamente riconoscibile.
Perduta e infame è invece la Capri di Angelo Petrella, giovane scrittore napoletano che in Nazi Paradise, un noir durissimo ed estremo, racconta la storia  di un giovane naziskin e hacker, che odia comunisti e borghesi alla stessa maniera, e quando trova comunisti che sono anche borghesi, vede rosso, anzi nero. Immaginarsi cosa può combinare quando viene mandato a Capri a craccare il computer di un ricco che conserva nella sua villa informazioni pericolose e compromettenti.
Chi Capri, invece, la incorona è Mario Soldati, che ci ha vinto un premio Strega (1954) con un romanzo che andava e veniva dall’isola azzurra e che volle titolare proprio “Le lettere da Capri”. Un romanzo complesso, a più voci, con una cadenza scomposta, che viaggia nel mondo. Una storia di passioni e adulteri, un gioco ambiguo che corre tra Roma, Parigi, New York e Capri.
Avrebbe potuto avere nel titolo uno qualunque di questi luoghi, ma Soldati scelse Capri, perchè voleva raccontare l’attrazione morbosa, lo scintillìo della sensualità, il tremore della carne, la furia della gelosia, lo smarrimento del sentimento, l’euforia e insieme l’abisso di un uomo e di una donna che si prendono e poi si segnano e poi si dimenticano e poi si scrivono, come fa Jane, moglie apparentemente irreprensibile di Harry, nelle lettere che invia ad Aldo, un amante caprese che l’accende di passione e la svuota di follia. “Non potevo che scegliere Capri”, disse Soldati, ricevendo il premio Strega.
Non ci fu bisogno di spiegare perchè.

( pubblicato sulla rivista Yacht Capri magazine, numero 3, pp. 220-224)

Come pochissimi

Sarà che ne frequento molti ma ho notato che l’improvvisa, violenta, scomparsa di Peppe D’Avanzo, ha emozionato moltissimo i giornalisti, soprattutto quelli più periferici, cioè quelli che lavorano di più, hanno meno tutele, conoscono l’odore della strada e fanno questo mestiere per un amore feroce, spesso non corrisposto. Mi sono chiesto perchè. Ho trovato la risposta nel profilo professionale ed esistenziale di Peppe.

Come tanti, a Napoli, l’ho conosciuto, ci ho speso qualche pomeriggio. Non sto qui a cucire ricordi. Altri ne hanno sicuramente di più significativi. Mi sembra, invece, utile capire perchè D’Avanzo, a differenza di tanti altri giornalisti, colpisca così tanto l’immaginario del cronista.

Per farlo, riparto da me. Avevo circa tredici anni quando decisi che volevo fare il giornalista e lo scrittore. Cose complicate anche da descrivere, a quell’età. A diciassette cominciai a fare il corrispondente del Mattino dall’area a nord di Napoli, a venti divenni pubblicista. Pensavo di avere davanti uno spazio infinito. Ero giovane, ero pieno di energie, avevo un sogno importante, e stavo già facendomi spazio.

Poi mi sono arenato. Sono rimasto lì. Ho scritto migliaia di articoli per Il Mattino e per decine di altri giornali. Ho fatto il corrispondente da Napoli per quotidiani importanti, ho firmato inchieste, ho scritto per la cronaca, la politica, e la cultura. Ma non sono mai andato oltre le collaborazioni. Ancora oggi sono un collaboratore cronico. Mai un’assunzione seria, una opportunità, la possibilità vera di costuire su questo mestiere, una vita. Col tempo ho imparato anche a fare altro, sempre nei dintorni della comunicazione, e nell’insieme ci vivo. Maluccio, ma ci vivo. Mi resta, però, come un groppo, il rammarico di non essere riuscito a diventare un giornalista vero, tutto. Una rabbia irrisolta.

Pensando a D’Avanzo, in queste ore, ho capito perchè. La colpa è mia.

Non sono stato tenace, caparbio, ostinato, come chi, senza padroni e padrini, vuole fare questo mestiere partendo dal sottoscala. Mi sono distratto. Mi sono perso. Mi sono messo a fare altro, anche altro, troppo altro e ho cambiato prospettiva troppe volte.

Non sono voluto partire, cambiare città, allargare gli orizzonti, provare, non ho avuto coraggio, non sono stato capace di cucirmi il giornalismo addosso.

Avrei dovuto imparare la sua lezione (me ne diede una, di persona, quando ero davvero un ragazzino): non fare il giornalista, sii giornalista.

Nella mia immensa, ridicola, presunzione di quegli anni, quasi lo mandai a fanculo. Per me non significava nulla essere giornalisti se poi non trovavi spazio per farlo. Poi ho capito che lo spazio devi occuparlo a prescindere. Con il tuo ingombro. Infilarti nello spazio, esserci. Sarà che non ho mai giocato a rugby, come lui, pur avendone il fisico. Sarà che ho letto troppi romanzi.

L’ho capito tardi, quando non avevo più l’età per investirci. O quando era passato il tempo.

Oggi nutro un amore tiepido per un mestiere che mi emozionava fino all’infarto (ecco); lo tengo tiepido per non soffrire troppo della sua mancanza. Ma capisco perchè la morte di Peppe colpisca tanto l’immaginario dei giovani cronisti. Non è la sua persona, è che lui si era fatto mestiere. Lui era giornalista, non lo faceva. Lo era così profondamente da sbertucciare Travaglio e quelli come lui, quelli che fanno la giudiziaria sulle veline dei Pm, quelli che pensano di fare giornalismo sputando sentenze su interpretazioni di fatti parziali, magari in bermuda dietro la loro scrivania, quelli che copiano le ordinanze, ne fanno libri, business, e non si degnano di un approfondimento, di uno scavo, di una intuizione, di una ricerca.

D’Avanzo era l’antitesi della giudiziaria alla Travaglio. Erano i Pm a sapere cose nuove leggendo i suoi pezzi. Gli regalava fatti e chiavi di lettura.

Perchè lui non faceva il giornalista. Lo era. Come pochi. Come pochissimi.

L’agnello

Avevo scritto che se la sarebbero cavata entrambi. Ho sbagliato. Sono molto più furbi di quanto pensassi: ne hanno sacrificato uno per proteggersi meglio. La Lega, soprattutto, abituata a questo curioso doppio gioco: legalitaria sui territori e con i deboli, spregiudicata e ammiccante a Roma con i potenti.

La Lega ha salvato dall’arresto Cosentino, accusato di collusione con i casalesi; ha respinto le autorizzazioni in mille altri casi, molti dei quali gravi. Ma poi ha dato il via libera per l’arresto di Papa, come per salvarsi un’anima che ha già perduto, e per tentare, con un veloce gioco di prestigio, di proteggersi dal ciclone dell’antipolitica.

La stessa preoccupazione leggo nel resto dei partiti politici. Sentono l’insofferenza della gente e provano a correre ai ripari. Fini e Schifani annunciano tagli. I partiti preparano proposte per automutilarsi. Rincorrono con le brache in mano il primo anonimo che su Facebook soffia sul fuoco.

Trovo tutto questo piuttosto privo di dignità. Come i tiranni che alla fine dei loro giorni trattano la resa per non perdere tutto.

Penso che si parli troppo, e a sproposito della fantomatica casta dei politici. Penso che si dovrebbe parlare di tutte le caste, di tutti i privilegi, di tutti i demeriti del sistema Italia. Penso che sarebbe giusto alzare il tiro e non accontentarsi. Penso che l’arresto di Papa sia, appunto, un contentino. Un piccolo osso per placare la fame mentre, invece, vorrei che suonasse l’ora di un cambiamento vero, profondo, in tutti, senza spedizioni punitive, senza verità rivelata, ma con determinazione.

Ciascuno per sé, ognuno nel suo campo. Senza innocenti e senza colpevoli.

Un cambiamento culturale, di mentalità, di modo di stare al mondo. Riscoprire la coscienza, il principio, l’etica, la responsabilità. Nella vita pubblica e, direi, anche in quella privata.

Ma il vento va in un’altra direzione. Il popolo italiano sembra disabituato a guardare lontano. Anche con tangentopoli fu così: un minuto prima leccavano i piedi a Craxi, e il minuto dopo tutti a lanciargli monetine.

Un minuto prima a chiedere raccomandazioni, e quello dopo a urlare contro i politici corrotti.

Il sistema, dal canto suo, concede, ogni tanto, al gregge un momento catartico. Un prato più verde. Due giorni di libertà per dargli l’illusione di una conquista. E’ necessario a perpetuare la speranza.

Diciotto anni dopo Tangentopoli siamo punto e a capo. Perchè? Non era un vero cambiamento. Sarà così anche adesso? Penso di sì.

La mia mente, ora, è al destino di quel deputato in una cella di Poggioreale. I quindicimila atti della sua ordinanza sono noti a tutti. Ma si tratta di un voluminoso atto di accusa, senza una parola della difesa. Ma non bisognerebbe ascoltare sempre le due campane? No, questo per i giornali non è un problema. Loro sbranano le ordinanze, e le persone, chiamandola cronaca giudiziaria mentre con la giudiziaria vera (i processi) non ha nulla a che fare.

Non c’è bisogno di un processo per dire che Papa è colpevole; del resto dorme in una cella. Ha subito un processo? No. E’ stato interrogato? No. Ha potuto difendersi? No. E allora come si può mettere in cella, e sui giornali, come fosse un malfattore, un uomo su cui ci sono accuse ma non c’è processo e non c’è difesa? E se fosse tutto un equivoco? E se Papa avesse agito per altri? E non fosse questo delinquente che tutti dicono? E se fosse innocente? E se un giorno fosse assolto?

In Italia non c’è dubbio. Quando l’agnello del sacrificio viene indicato, va sbranato. A Papa è toccato questo destino. Non me ne compiaccio e, anzi, gli sono solidale.

Spero che non soffra troppo di questa Italia patetica.

 

Cane che abbaia

Tra poche ore si vota alla Camera dei deputati e, contemporaneamente, al Senato della Repubblica, sulle richieste di arresto per Alfonso Papa (Pdl) e Michele Tedesco (Pd).

Punto la mia scommessa sul fatto che entrambi stasera dormiranno nei loro letti.

La classe politica sente il fiato addosso della gente. In ogni famiglia del ceto medio italiano c’è un disoccupato o un precario; in ogni famiglia del ceto medio italiano si sente la crisi, si contano gli spiccioli, si guarda al futuro con preoccupazione. Alla classe politica non si perdona, in fondo, questo. Che gli italiani soffrono e loro, invece, sembrano godersela.

Gli italiani, per come sono, perdonerebbero corruzione, orge, ruberie, mediocrità, privilegi e raccomandazioni. Non gliene frega niente, in fondo. Ma solo se stessero bene.

Se, invece, loro soffrono e i politici godono, no. Non ci stanno. E’ il vecchio vizio del mal comune, mica altro. Non credo ai sussulti di dignità dei miei concittadini. Ne vedo poca di dignità in giro. Non credo alla moralità di questo popolo. Credo, invece, che chi ha la pancia vuota non tollera chi ce l’ha piena.

Solo una parte del centrodestra ha detto ufficialmente no agli arresti per i due parlamentari. A suo modo è coerente: difende se stessa fino all’ultimo. Gli altri hanno paura. Ha paura la Lega, al cui collo rischia di stringersi lo stesso cappio che agitava durante tangentopoli. E ha paura il Pd, che alla gente, per statuto e cultura, deve dare conto più di altri partiti.

Hanno paura e dicono sì alle manette. Ma rischiano di finire come quelli che, per addolcire il cane che abbaia, lo accarezzano e vengono azzannati.

Sulla carta, i numeri dicono che Papa e Tedesco dovrebbero andare in carcere. I voti del centrosinistra, sommati a quelli della Lega e dell’Udc, fanno la maggioranza. Ma qualcuno chiederà il voto segreto, e nel segreto scatterà la difesa corporativa. Sul banco finiranno proprio Lega e Pd, accusati di fare il doppio gioco.

I due parlamentari, comunque, alla fine, se la caveranno. Da domani, invece che agli arresti, rimarranno a Montecitorio e a Palazzo Madama. Curioso, no?

Dovrebbero stare in carcere per aver violato le leggi e siederanno nelle assemblee dove si fanno le leggi.

Che cosa dire più dell’Italia?

 

Li voglio vivi

Il popolo di sinistra è indignato: il Pd si è astenuto sulla soppressione delle province. Scandalo! Fanno parte anche loro della casta!

E via con le proposte: ridurre i parlamentari, tagliare gli enti locali, meno politici, meno soldi, meno benefit, tagliare le auto blu.

E via con le leggende: vanno al cinema gratis, vanno al teatro gratis, guadagnano 30mila euro al mese, mangiano gratis alla buvette, e c’è pure il barbiere.

Ormai siamo tutti storditi dal populismo. Grillo e Di Pietro ci stanno facendo più male di Berlusconi. Siamo come drogati. Luoghi comuni, false notizie, furori disordinati.

Confesso che a me non frega assolutamente niente di cancellare le province, ridurre i parlamentari, tagliargli lo stipendio, cancellare i benefit.

Anzi, ascoltate quello che vi dico: mi piacciono i parlamenti pieni di gente, mi fanno paura i parlamenti piccoli, con poche persone a decidere per tutti. Mi piacciono i Consigli comunali numerosi, le istituzioni plurali, tanti livelli, tanta gente a decidere, a controllarsi reciprocamente, a riflettere sul bene comune; tanti a ragionare per il bene di tutti. Voglio mille parlamentari, anche duemila. A farsi classe dirigente, a contrapporre interessi.

Voglio partecipazione, voglio gente. Voglio le province, voglio i comuni, voglio le regioni, voglio le comunità montane, voglio molta gente in parlamento, e indennità alte. Se un manager di Stato guadagna un milione di euro l‘anno, se un calciatore prende due milioni di euro al mese, voglio che la classe dirigente del mio Paese sia ben retribuita, e lavori in buone condizioni. La voglio pagata bene, in modo da attirare i migliori, e che sia pagata con i soldi pubblici, perchè è trasparente, perchè se i soldi sono anche i miei posso controllare.

Voglio tanti a fare politica, voglio tanti nelle istituzioni, li voglio ben pagati.

Ma li voglio svegli e seri.

Questo è il punto: voglio che siano i migliori.

Mi scandalizza la mediocrità della classe politica, non il loro numero e i loro benefit. Mi scandalizza che non sia classe dirigente. Mi scandalizza chi sono e come sono scelti.

Li voglio numerosi e ben pagati. Ma voglio che affrontino i nodi veri del Paese. Le riforme non sono la cancellazione delle province, la riduzione di consiglieri e assessori, il taglio delle auto blu, o degli stipendi. I nodi veri sono le riforme per liberare le professioni, far saltare le caste del lavoro e dell’economia, intervenire sulla paralisi sociale per cui fai il notaio solo se sei figlio di notaio, e il giornalista se sei figlio di giornalista. La riforma vera è riscrivere i numeri della coesione nel rapporto anziani-giovani; le riforme sono rimodellare la flessibilità per farla diventare occasione d’ingresso e non precariato a vita; le riforme sono lotta all’evasione fiscale, tasse non solo per dipendenti e pensionati, tolleranza non dico zero ma almeno uno verso la corruzione, la furbizia, l’illegalità diffusa. La riforma vera è combattere la criminalità organizzata che frena lo sviluppo. La riforma vera è una scuola pubblica decente, il rispetto della Costituzione quando fissa il diritto alla salute, all’istruzione, e l’obbligo della Repubblica a rimuovere gli ostacoli per l’uguaglianza.

Non voglio una classe politica meno numerosa e meno pagata. La voglio più competente e più presente.

La voglio viva. 

Bellitalia

È successo questo: ero a piazza Montecitorio, fermo, aspettavo una persona. Dondolavo sulle gambe, sotto al sole. Accanto a me c’era un signore anziano, in giacca e cravatta, corpulento, sudato, andava avanti e indietro. Il viso rosso e buono, il sorriso cordiale, capelli alla Lino Banfi, mi rivolge la parola parlando del caldo. Gli rispondo, gli sorrido, mi fa simpatia, sembra una brava persona. Un maestro elementare degli anni Sessanta, un vigile urbano in pensione, un ragioniere, un brav’uomo qualunque, una specie di Giovanni Rana. Che bella Italia, penso. Come sempre gli cucio una vita addosso. Immagino la moglie, le figlie femmine, i generi, i nipoti e il Natale tutti assieme. La villeggiatura, i compleanni e la moglie che gli stira le camicie. Mi ispira fiducia.
Poi vedo venire da lontano, con passo spedito e ansioso, Marco Milanese, il deputato del Pdl di cui oggi la Procura di Napoli ha chiesto l’arresto nell’ambito dell’inchiesta P4. Camminava agitato, col volto tirato. Sembrava in fuga. Mi passa accanto con la testa bassa, poi la alza, vede il signore anziano, gli sorride. Si conoscono. Si avvicinano, io sono lì, si stringono con forza la mano e l’anziano gli dice : “coraggio, coraggio, siamo con te”.
Come sarebbe, giovannirana? Questo è un deputato accusato di corruzione e associazione a delinquere, vogliono arrestarlo, e tu gli dici coraggio? Milanese se ne va e il vecchio si gira verso di me. “Bravissima persona”, dice. “‘O cazz”, rispondo. Lui sobbalza, si indigna, e si allontana. Che brutta Italia, penso. Lo pensa di sicuro anche lui.

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