Sassi e legalità

Si può definire eroe chi lancia pietre e molotov contro la Polizia per impedire che il cantiere di un’opera pubblica venga aperto?

Lo avrebbe fatto Beppe Grillo, in un comizio, ieri, in Val di Susa, dove ci sono state proteste pacifiche e scontri violenti per la costruzione della Tav, un’opera da molti ritenuta inutile e dannosa, da altri necessaria.

In realtà lui dice che si rivolgeva ai manifestanti pacifici.

Comunque sia, la domanda resta, e qualche ambiguità pure.

Non entro nel merito della discussione sulla Tav. Ne conosco poco i dettagli e non saprei prendere una posizione.

Quello che mi colpisce , però, è la legittimazione della insubordinazione allo Stato. Mi colpisce perchè arriva dagli stessi ambienti che, per altro verso, invocano legalità. Mi chiedo come si tengano insieme le due cose.

Certa politica, quella più estrema, ha un rapporto strano con la legge. Per un verso fa della questione morale un perno della sua presenza politica. Non fa che giudicare i comportamenti. La sua polemica politica per un terzo è sui contenuti e per due è sulla moralità dell’avversario. Si contestano interessi personali, corruzioni, imbrogli,  collusioni con affaristi, con la criminalità, raccomandazioni. Si invocano il merito e la legalità. Si inneggia a forze di polizia e magistratura, si innalzano sugli altari le vittime per la legalità. Si coltiva il culto degli eroi legalitari. Si disegna il profilo di una società giusta, dove tutti devono rispettare le regole.

Poi si dimentica tutto questo e, in certe circostanze, si prende a sassate lo Stato. Allora non capisco: se la legge va rispettata, e se la questione morale va messa al centro della vicenda politica, perchè non lo si fa più quando questa va nella direzione contraria a quella che auspichiamo?

Naturalmente qui non è in discussione il diritto a manifestare il proprio dissenso. Ci mancherebbe. Ognuno può e deve dire come la pensa. Si discute, invece, della legittimità di una rivolta violenta, con armi, tecniche, assalti alla Polizia, a cui spesso si guarda con un certo compiacimento.

Un mio conoscente, che si dice molto di sinistra e che è, teoricamente, molto radicale sui temi della legalità, in modo particolare sull’ambientalismo, ha sempre usato parole di fuoco contro chi, in politica, assumeva comportamenti che lui definiva immorali. Aveva sempre un’accusa pronta, il dito puntato. Tu fai questo, tu fai quello. Poi si è costruito una villetta abusiva in un terreno di sua proprietà all’interno di un bel bosco. Quando gli chiedevo come potesse conciliare questo suo gesto con la sua presunta fede politica ed ecologista mi diceva che il “Piano regolatore aveva distribuito le licenze secondo gruppi di potere locale e che il suo terreno era stato considerato agricolo solo perchè apparteneva a lui”.  Disobbedire a quella spartizione era giusto.

Insomma, si era fatto la legge ad personam.

Un altro mio conoscente, in politica non parlava che di moralità. Degli altri, ovviamente. Poi, quando gli è toccato di fare il sindaco, ha fatto mille compromessi, anche con la camorra. E anche per sé stesso, per tutelare alcune vicende di una sua azienda. Prestiti, soldi, accordi, trucchi, stratagemmi. Quando gli ho chiesto conto di queste contraddizioni si è inalberato, quasi come se la sua purezza morale fosse un dato di fondo, indipendente dai comportamenti. Se una cosa la fai tu è sbagliata. Se la stessa identica cosa la faccio io è giusta.

A me sembra tutto, chiaramente, paradossale. Se fai della questione morale una bandiera poi devi essere coerente e rigoroso. La legge vale anche per te. Tutte le leggi valgono anche per te.

Se invochi le manette per i deputati che definisci ladri, poi non puoi prendere a sassate la polizia.

C’è di buono che, a volte, il popolo è più civile di chi pretende di rappresentarlo. Le immagini della guerriglia disgustano gli italiani e allontanano la gente dalla protesta. E’ sempre stato così. Quando una manifestazione di popolo diventa violenta, muore.  Chi pratica la violenza accusa chi si allontana di vigliaccheria. Non volete pigliare le botte. Quante volte l’ho sentita. E invece è un singulto di coerenza, che non è la caratteristica di chi non cambia mai idea. Ma di chi fa esattamente quello che dice.

La coerenza è una corrispondenza tra i gesti e le parole, i comportamenti e le idee. Dico una cosa, e la faccio. Concetto curioso e insopportabile per un paese di buoni predicatori che razzolano malissimo.

Il corpo stesso

Il capo della squadra mobile, il calciatore napoletano più famoso, commercialisti di grido, e locali alla moda. Oggi sono finiti tutti in cronaca per una inchiesta della Procura di Napoli su riciclaggio di denaro della camorra e favoreggiamento. Il clan è quello di Salvatore Lo Russo, ieri potentissimo capo, oggi collaboratore di giustizia.

L’inchiesta ha portato al sequestro di famosissime pizzerie del lungomare di Napoli. Tre commercialisti sono stati arrestati, altri imprenditori denunciati. Il capo della squadra mobile, il superpoliziotto Pisani, noto per aver arrestato latitanti e camorristi, è stato colpito da divieto di dimora ed è stato subito trasferito a Roma.

L’inchiesta, com’è ovvio, non condanna ancora nessuno. La verità è tutta da accertare.

Lo scenario che emerge però merita qualche riflessione.

E’ ormai chiaro che la camorra ha due sezioni: quella fetente e quella finanziaria.

Quella fetente uccide, minaccia, spara, traffica in droga,  fa estorsioni, organizza paranze di killer e guardiaspalle armati. Lavora abbastanza indisturbata. Ogni tanto qualcuno viene arrestato: in genere sono pesci piccoli beccati con le mani nel sacco. I capi finiscono in manette dopo latitanze lunghissime e quando sono stati già sostituiti sul campo.

La camorra fetente fa un sacco di soldi. Li fa in contanti. Tutte le sere. Soldi dalla droga e soldi dalle estorsioni. Un sacco significa tante, tantissime banconote. Si racconta che un camorrista di Marano, vicino Napoli, la sera radunava donne e bambini della famiglia, li metteva in salotto, apparecchiava un tavolo lungo di legno, come per una tombolata natalizia, e poi faceva scaricare decine di buste di plastica piene di banconote. Bisognava contarle e farne mazzette. Soldi contanti, a fiumi. Ogni sera incassi anche di 200mila euro. Tutti in banconote. Che farne? I soldi in contanti sono un problema. Se arriva una perquisizione bisogna giustificarli. In ogni caso li sequestrano, si perdono. Poi perdono valore. Bisogna usarli.

I boss spendono molto, anche per questo. Macchine, ville, vestiti. Distribuiscono denaro contante alle famiglie dei detenuti, pagano lo stipendio a spacciatori e capirione.

Ma i soldi contanti restano ancora tanti.

Qui entra in scena la seconda sezione della camorra, quella finanziaria. Qui non ci sono guappi, non ci sono pregiudicati, non ci sono “fetienti”. Ci sono rispettabilissimi signori in giacca e cravatta. Laureati, seri. Manager, commercialisti, imprenditori, commercianti, direttori di banca, consulenti finanziari. Prendono i soldi contanti della camorra e devono investirli. Non è semplice riciclaggio. E’ di più.

Una volta, la camorra si limitava a riciclare.

Creava aziende fasulle, negozi senza clienti: li intestava al prestanome, questo apriva un conto corrente, faceva cento scontrini al giorno anche se non entrava nessuno, fingeva di fare incassi, e la sera portava in banca i soldi del clan. Eccoli ripuliti. Da quel momento i soldi stavano su un conto corrente, fruttavano interessi, riposavano lontano dai sequestri. Qualcosa si perdeva, ovviamente, per le spese di tenere un negozio inutile, per le tasse, per lo scomodo del prestanome. Ma per ripulirne cento, ne perdevi quaranta. Intanto, però, sessanta li mettevi al sicuro. Il giro era ristretto, il prestanome era un ragazzo, o una donna, una persona di fiducia, incensurata. Nessuna grande mente finanziaria, poca roba.

Poi la camorra ha fatto un salto di qualità, ha aperto la sezione finanziaria.

La camorra finanziaria investe per davvero. Crea attività che funzionano, che sono competitive sul mercato. Per fare un esempio, sempre a Marano. Una volta il clan, per riciclare, creava ditte di forniture edili e obbligava tutti i cantieri a prendere il calcestruzzo da loro. Materiale di scarsa qualità venduto a peso d’oro.

Nessuno poteva dire di no. Era una estorsione e si ripulivano soldi.

Quando la camorra ha deciso di fare il salto di qualità, ha lasciato la vendita del calcestruzzo ed è passata a costruire direttamente. Ma cose di lusso, di valore. Perchè i clienti che comprano casa non li puoi minacciare. La comprano se è bella, se funziona. Così la camorra è entrata nell’edilizia. Ha creato imprese di costruzioni e immobiliari e si è affermata sul mercato. Libera impresa, libero mercato. Sempre a Marano, il clan Polverino, lo ha fatto nel commercio delle carni e del pane. Ha creato un’azienda florida, ha creato lavoro, ha fatto fruttare gli investimenti. Ha portato il pane napoletano a Londra, e nelle grandi catene di centri commerciali. Le minacce? Sì, solo al territorio prossimo, però, o a possibili concorrenti. Poi sul mercato conta la capacità aziendale.

Questo cambiamento ha mescolato completamente le cose. I buoni e i cattivi si sono mischiati e non è stato più possibile separarli, nemmeno visivamente.

Ho mangiato spesso la pizza da Regina Margherita, una delle pizzerie sequestrate oggi. Buona, davvero. Bel locale. Chi direbbe, entrando, che c’entra la camorra? E il brillante proprietario, quel Marco Iorio, che in società con Fabio Cannavaro, la gestiva? Un delinquente? A prima vista, niente affatto. Di lui era amico Vittorio Pisani, capo della squadra mobile di Napoli, che avrebbe avvisato Iorio delle indagini a suo carico e ne avrebbe favorito le mosse.

Incredibile?

No, a Napoli no. Perchè ormai la camorra ha rotto gli argini, ha allungato la sua macchia d’olio sporco su tutta la città. Se dici, i fetienti: quelli si sa dove stanno, sono riconoscibili, ce l’hanno scritto in faccia.

Ma se dici, camorra finanziaria, allora le differenze non si vedono più. Ti sono accanto, sono i tuoi vicini di casa, sono i tuoi ex compagni di studi, è il tuo commercialista, è il tuo direttore di banca. Professionisti che si sentono anche a posto con la coscienza. Il commercialista che ricicla soldi del clan consigliando società, mosse, investimenti, dice: ma che ho fatto di male? Ho fatto solo il mio mestiere. E’ davvero convinto che per essere un camorrista deve sparare, spacciare e farsi tatuare la Madonna di Pompei sul braccio? No, finge. Finge di non sapere da dove vengono i soldi che fa fruttare. Se la racconta. Gli conviene.

L’economia gira così, chi ha i soldi conta, chi non ce li ha non vale un cazzo. Loro lavorano con i soldi e non guardano in faccia a niente.

Intanto, saltando dalla sua quarantena, entrando nel salotto della finanza imprenditoriale, la camorra si è sdoganata da sola. Ha conquistato pezzi di territorio, classi sociali, quartieri. Ha allargato il suo dominio, crea posti di lavoro, fa aumentare il suo consenso sociale, lo orienta sulla politica ma solo per sfizio perchè ormai è la politica che chiede favori alla camorra. Questa controlla le vere leve perchè ha capito che con quei soldi, se esce dal ghetto, diventa società, diventa il sistema nel sistema.

La camorra è arrivata così, a Napoli, ad inquinare le falde acquifere della coscienza pubblica. Ad esercitare forse il pezzo finale del suo dominio. Ha fatto il salto di specie. Non è più il cancro nel corpo sano della città.

E’ il corpo stesso.

Le due facce dei Quartieri spagnoli

Per una volta evito di parlare di de Magistris, che dopo aver ballato Ymca al gay pride, stamattina si è messo alla guida di un autocompattatore dei rifiuti dell’Asìa,  e ci ha regalato, anche oggi, il piccolo show di una città che sembra condannata all’eterna sceneggiata di se stessa.

Parlo, invece, dei Quartieri spagnoli.

Vicoli affollati di gente sudata e seminuda, che gira per strada come fosse nel corridoio di casa, pantofole e canottiera; stradine dense di umido e umanità, l’anarchia colorata di buon cuore, femmine di due tonnellate e mariti magri e nervosi, milioni di motorini, e di bambini sui motorini, e di famiglie intere sui motorini.

Piegati dall’emergenza, sommersi di sacchetti, anche a causa della loro promiscuità (vicoli stretti, bassi abitati, molti negozi alimentari angusti con vendite esterna), i Quartieri hanno sofferto più di altre zone della città la crisi della spazzatura.

Al quarto giorno di mancata raccolta, però, è scattato un meccanismo.

Sulle prime, una rivolta: a decine hanno preso la spazzatura e l’hanno portata a via Roma, il corso principale, che era curiosamente pulito. Poi hanno fatto sparire i cassonetti, al loro posto ci hanno messo le auto, hanno disinfettato tutto con la creolina, hanno affisso decine di cartelli, e hanno creato delle vere e proprie ronde. Nessuno può più depositare rifiuti. Chi vuole li porta altrove, a via Roma, o a Corso Vittorio Emanuele. Oppure aspetta il camion dell’azienda di raccolta, che quando passa già sa. Non deve più scaricare i cassonetti (dove sono?): la gente quando vede il camion scende di casa, mette il sacchetto accanto a un muro e rimane lì, si fa un mucchio di spazzatura e di persone, un grumo di donne per lo più, a tarda sera. Nei vicoli si passano la voce, scatta l’urlo, la gente scende. Quando passa il camion, gli addetti prendono i sacchetti uno per uno e se li portano. La gente lascia il mucchio solo quando a terra non è rimasto più nulla. Se il camion non passa, la spazzatura resta in casa. Oppure chi vuole va a buttarla altrove. Ovviamente, guai a chi sgarra. La gente dei Quartieri sa fare paura.

Non so come definire questo sistema. Per un verso sono ammirato dalla capacità di autogoverno, dalla capacità di reazione di fronte a istituzioni sorde, inattive, che al di là dei proclami non sono state nemmeno capaci di buttare un disinfettante per le strade. Per un altro verso sono atterrito dalla determinazione con cui la cosa pubblica viene considerata privatissima.

Funziona così un luogo civile? Con una zona franca al centro della città? Un rione autonomo e autonomista, che si dà le sue regole e i suoi vigilanti, che si autogoverna, che non riconosce autorità esterne? Cittadinanza attiva o cancellazione delle regole di civiltà? Non so rispondere. Tutte e due, forse.

I Quartieri spagnoli, per quel poco che ho imparato (frequentandoli da poco, e preparandomi, per ragioni personali, a starci sempre di più), hanno due facce. Sempre. Una accogliente, una ostile. Una luminosa, una oscura. Una bella, una tagliata.

La dura legge della realtà

La cosa davvero curiosa della non-emergenza rifiuti a Napoli è che il sindaco Luigi de Magistris e il suo vice Tommaso Sodano devono sperare nella ripresa delle attività del termovalorizzatore di Acerra e nell’apertura di tre sostanziali discariche provvisorie per affrontare una situazione che non è più crisi ma regola.

In sostanza, se avesse vinto Lettieri, o Morcone, e loro fossero oppositori, sarebbero sulle barricate a dire no a quegli impianti che oggi, con Cesaro e Caldoro, loro stessi auspicano.

Sodano, candidamente, ha ammesso che lui, oggi, “deve servirsi di strutture a cui si è opposto, per la necessità di alzare i rifiuti da terra”.

Ancora più paradossalmente, se Sodano, con sit in e blocchi stradali, non avesse negli anni scorsi ritardato e spesso bloccato l’allestimento dell’impiantistica del ciclo campano, forse anche a ragione, oggi non si avrebbe l’emergenza che lui solo in parte risolve utilizzando l’impianto che avversava.

I due già ex rivoluzionari, alle prese con le maledette spine della vita reale, provano a tenersi comunque in equilibrio.

Sodano dice che “Napoli va a scaricare dove dicono Provincia e Regione, e non è colpa sua se il ciclo è fallito, se le scelte del passato sono state sbagliate e se oggi, almeno per ora, non c’è altra via di uscita”.

Ha ragione.

Intanto, però, manda i suoi rifiuti nell’inceneritore di Acerra, che lui ha contestato e che voveva chiudere e che se oggi non ci fosse, moltiplicherebbe l’emergenza. Manda altri rifiuti nella discarica di Chiaiano, che de Magistris ha definito “scempio da sequestrare” e che oggi utilizza; invoca l’apertura di siti provvisori che quando erano aperti da Bassolino o De Gennaro o Bertolaso, lui contestava con l’elmetto in testa.

La coerenza, questa sconosciuta.

I due hanno detto di aver varato in due ore una delibera che a Napoli si aspettava da dieci anni. Che dice questa delibera? Che si studia l’allargamento della differenziata a 325mila persone nei prossimi 90 giorni. Un terzo della città, e si parte a settembre. Se tutto va bene, per dicembre, quindi, avremo il 25 per cento di differenziata. Un obiettivo già importante ma niente di epocale. Oltretutto non c’è ancora copertura finanziaria.

In effetti, data la situazione di Napoli, se tutto andasse per il verso giusto, con impianti nuovi, siti di compostaggio, riduzione dei rifiuti, nuovo ciclo, e nuova cultura (tutto ciò con quali soldi?) per la fine della consiliatura si potrebbe giusto smussare qualche angolo di questa vicenda drammatica e si sarebbe comunque compiuta un’opera meritoria.

Ma de Magistris, in campagna elettorale, non aveva promesso il 70 in sei mesi e detto mai più discariche-mai più inceneritori?

Conosceva la complessità della situazione o parlava a vanvera?

Oppure, semplicemente, era ancora il tempo di barricate e bandane e di fumo negli occhi al popolo delle dolci utopie che ama sognare l’impossibile anche in mezzo agli impossibili incubi?

Nessuno di noi crede nei miracoli. E meno che mai ne chiede a chi ha la sventura, e l’immenso di coraggio, di provare ad amministrare questi territori. Il problema è che i miracoli erano stati prospettati. E allora lo sfizio di rendere conto ti viene. Non perchè non ci sia simpatia per gli amministratori. Anzi. Da quando sono diventati pragmatici uomini di governo, de Magistris, Sodano, e compagni, meritano sostegno e incoraggiamento. A loro è affidata la speranza di questa città e aiutarli è addirittura un dovere civico, oggi.

Il problema è che li abbiamo visti abilissimi a costruire facile consensi sul no, e oggi fanno un po’ tenerezza quando arrancano di fronte a scelte “necessarie, indispensabili, complesse”, che sono tali solo perchè riguardano loro. Se avessero dovuto prenderle altri, non ci sarebbe stata alcuna indulgenza.

La dura legge del governo e la comoda culla di dire sempre no.

 

La peggiore Italia

Misurate il valore delle persone da quanti soldi hanno in tasca. Avete un’adorazione assoluta per il potere e il successo. Credete che alla gente si debba dire ciò che è utile e non ciò che è vero. Pensate che il mondo giri a furbizia e vi organizzate per esserlo più di tutti.

Se qualcuno scopre i vostri traffici non vi difendete ma attaccate scavando nella vita dell’altro e manipolando la sua storia personale. Pensate che tutti siano peccatori e vi sentite autorizzati a qualunque cosa. Vi indignate con le puttane da strada ma vi piacciono chiuse in casa. Pensate che siamo tutti uguali.

Siete convinti che invidiamo i vostri soldi, le vostre case, il vostro potere e le vostre orge. Vi mettete accanto una moglie e credete che debba stare al suo posto altrimenti é un’ingrata. La vostra morale é il vantaggio personale e se qualcuno fa storie pensate a quanti soldi ci vogliono per comprarlo.

Vi fate una guerra fottuta tra voi. Invocate la castrazione per i pedofili e non vi accorgete di esserlo. Truffate il fisco perché è da fessi non farlo e se vi beccano è perché qualche nemico ve l’ha fatta pagare.

Per voi tutti i voti vanno bene, anche quelli delle mafie, tanto potete sempre negare. Vivete di lobbismi, massonerie, circoletti, e vi aiutate tra voi con raccomandazioni, spinte, inciuci. Pensate che il ricco sia uno buono e il povero un incapace. Credete che il disoccupato sia sfaticato e non abbia voglia di lavorare perché il lavoro in fondo c’è. Pensate che il precario sia uno sfigato e chi non viola la legge, solo uno che ha paura delle rogne.

Pensate che gli idealisti non esistano e che ci sia un prezzo per tutti. Amate l’aggressività perchè la vita è dura. Disprezzate i gay ma qualche ora con un trans, in gran segreto, non vi dispiacerebbe.

Negate l’evidenza. Frignate se vi gira male. Leccate il culo a chi è più potente di voi e ve lo fate leccare da chi lo è di meno. Fate la voce grossa con gli immigrati ma solo con quelli poveri. Siete contro le droghe ma un po’ di cocaina aiuta. Corrompete e siete corrotti ma sono solo regali.

Non sopportate chi vi contesta perché vi ricorda quello che siete. La peggiore Italia.

Una sera

Capita che una sera cammini svogliatamente in libreria, giri tra gli scaffali, osservi, annusi le copertine, leggi due righe, tocchi i libri come fossero frutti, per sentirne la consistenza. Capita che poi all’improvviso, in mezzo agli altri, trovi il tuo di libro, un romanzo di qualche anno, di non particolare fortuna, che è appoggiato lì. Ed è come incontrare un vecchio parente inatteso.
(Stasera, Feltrinelli megastore, piazza dei Martiri, Napoli).

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All’acqua pazza

Sul referendum di domenica si è fatta molta ideologia. E quando scendono in campo i fedayyn c’è sempre poco spazio per ragionare. O sei disposto a farti esplodere per il “credo” oppure sei un infedele.

Storia antica, comune agli estremismi: sinistra, destra, religione e tifo calcistico. Sento in giro molti slogan e molti luoghi comuni.

Sul no al nucleare, forse, c’è la discussione più chiara: favorevoli e contrari ad una tecnologia per la produzione di energia.

I favorevoli dicono che il rischio è minimo e i vantaggi massimi. I contrari dicono che il rischio non vale la candela, che ci sono strumenti alternativi meno costosi, meno pericolosi, meno inquinanti.

Io voterò sì all’abrogazione del nucleare perchè penso, in effetti, che non ci sia bisogno di allestire centrali costosissime, pericolose, inquinanti per ricavare l’energia che potremmo ottenere sia con fonti alternative sia risparmiando (tema che non si affronta mai ma che varrebbe qualche riflessione).

Sull’acqua, invece, si gioca la vera partita ideologica. Si parla di “acqua bene comune” e di “non regalare l’acqua ai privati”.

In realtà si vota su tutt’altro.

Il referendum vuole abrogare una legge, la Ronchi, che obbliga gli enti locali ad appaltare ai privati, non la proprietà dell’acqua, ma una quota di almeno il 40 % della gestione degli acquedotti.

La convinzione è che entrando i privati possano entrare capitali che ammodernano e rendono funzionale il servizio. Il tema, quindi, è questo e non la privatizzazione dell’acqua. Intanto perchè l’acqua, in alcuni casi, è già concessa ai privati.  Se ho un pozzo d’acqua nella mia terra, l’acqua mi viene data in concessione.

Avete presente, poi, le acque minerali? Sono in concessione da sempre ai privati, con canoni anche molto bassi.

Sono pubbliche, per legge, tutte le sorgenti. E sono pubbliche le reti di acquedotti, quelle che intubano l’acqua e la portano nelle case.

Nessuna legge ha mai pensato di privatizzare le sorgenti e gli acquedotti. Quindi l’acqua è e resterà pubblica mentre qui si discute se privatizzare o no la gestione, cioè gli acquedotti, cioè il servizio.

La convinzione di vuole privatizzarli è che con capitali e imprenditori si guadagna efficienza e investimento. La paura di chi non vuole è che con i privati si stringa la morsa sugli utenti indigenti, aumentino le tariffe per sostenere il profitto, e non è detto che aumenti l’efficienza.

Chi ha ragione? Un po’ tutti. In Italia abbiamo acquedotti pubblici e acquedotti privati. A volte il pubblico funziona bene e a volte male. A volte il privato funziona bene e a volte male. Facciamo due esempi. A Milano l’acquedotto è pubblico: la tariffa è la più bassa d’Italia, la dispersione è a livelli tedeschi (solo l’11 per cento) e il servizio è efficiente. Ad Agrigento l’acquedotto è privato: la tariffa è altissima e il servizio non funziona. Per questo bisogna fuggire dagli ideologismi e guardare ai dati reali. Non sempre il pubblico è inefficiente, non sempre il privato è efficiente. E viceversa.

Come orientarsi? A me sembra che stia crescendo la voglia nel mondo occidentale di lasciare al pubblico la gestione di servizi fondamentali perchè è cresciuta la consapevolezza che si possono maturare efficienze anche nel pubblico, con costi più equamente distribuiti, con meno radicalità e senza profitto. Attenzione, però, ai carrozzoni clientelari, sempre in agguato quando a parlare, in Italia, solo i partiti e la politica.

Io voterò sì, con cautela, senza radicalismi, perchè mi sembra una sciocchezza introdurre l’obbligo di cedere ai privati anche gli acquedotti pubblici che funzionano.

La quarta scheda del referendum è sul legittimo impedimento. Di cosa dobbiamo parlare? La legge è stata già mezzo abrogata dalla Corte costituzionale. Inoltre è una legge a tempo: scade tra qualche mese. Riguarda sostanzialmente solo il presidente del Consiglo, che corre già verso la prescrizione e ormai è in declino. E’ un referendum abbastanza inutile.

Voto sì per dire semplicemente, ancora una volta, vaffanculo Berlusconi.

Scempio di civiltà

Una nuova inchiesta giudiziaria, clamorosa, e tornano gli atti, i verbali, le ordinanze e le intercettazioni telefoniche in prima pagina. Due persone parlano al telefono di scommesse sulle partite di calcio, tirano in ballo altri nomi. E tutto finisce nel barnum mediatico. Volti e nomi sparati sui giornali. Aliti di conversazioni, allusioni. Gli indagati diventano colpevoli, i nomi citati nelle telefonate sono sospetti. Alcuni sono agli arresti, non ne parliamo. Sputtanamento totale, come titolò un noto quotidiano ai tempi di un altro scandalo.

Ma finito il clamore, cosa resterà? Quello che rimane, sempre, di una complessa indagine. Rinvii a giudizio o proscioglimenti. Molti nomi usciranno di scena perché non c’entravano nulla. Altri, forse, saranno rinviati a giudizio. Ci saranno tre gradi di processo. Qualche condanna, qualche assoluzione. Tra sette, otto anni sapremo. L’accertamento di verità è lungo e complesso. Giusto: ne va di essere umani. Ma è troppo tempo per i media. Che devono battere il ferro caldo. Quindi via alla “cronaca giudiziaria” sulle indagini preliminari. Basta che due indagati al telefono parlino di te e finisci sul giornale.

Oggi ho letto addirittura che un Gigi citato nelle intercettazioni potrebbe essere il noto calciatore xx yy ma “gli inquirenti smentiscono e gli indagati non confermano”.

Un mezzo pettegolezzo diventa una macchia indelebile. Tra qualche settimana qualche ineffabile cronista giudiziario pubblicherà di sicuro un libro su Calciopoli 2. Ordinanze, verbali, intercettazioni: il solito campionario. Che si tratti di indagini preliminari tese a rinviare a giudizio o scagionare dei semplici indagati, come potrebbe essere ciascuno di noi, non importa a nessuno. E nessuno lo dice.

Un tempo la giudiziaria si faceva seguendo i processi. L’accusa, la difesa, le ragioni di tutti, e infine il verdetto. Un’altra serietà. Si dava notizia, certo, delle inchieste in corso. Ma con cautela. Con scarsa dovizia.
Oggi è tutto ribaltato. Paginate sulle inchieste, foto e titoli e libri su indagati e sospettati. E due righe interne per i processi. Una breve, magari, per l’assoluzione di chi era finito in prima pagina come indagato.

Possiamo definire tutto ciò, uno scempio di civiltà? Dico di sì. Lo dico da uomo di sinistra, da garantista, da giornalista.
Di chi è la colpa? Dei media, innanzitutto, che nella febbre dell’ipervelocità imposta da internet hanno perso l’affezione all’approfondimento, al senso critico e alla responsabilità, arroccandosi in una difesa da casta quando qualcuno fa una critica o una proposta.

Poi la politica, stretta tra il bisogno di delegittimare la magistratura a protezione delle proprie malefatte e la paura di affrontare la corazzata micidiale media-magistrati, e quindi incapace di fare una legge seria che punisca certe fughe di notizie da fascicoli giudiziari di garanzia.

Infine i Pm. Figura fondamentale dell’ordine giudiziario, con uomini che per coraggio e abnegazione, hanno pagato con la vita il servizio allo Stato. Figura altissima ma troppo di frequente malata di narcisismo. Le prime pagine danno alla testa e l’abbraccio vanesio con i media può trasformare un tenace inquirente in una star.

Se a Napoli un discusso Pm diventa sindaco e si porta come assessore un altro Pm, significherà qualcosa, o no?

Ci basta il trentacinque

Non amo i buffoni.

A Napoli questa parola si riempie di significati. Noi per buffone non intendiamo il pagliaccio ma il gradasso, una sorta di guappo non violento, uno “squarcione”, un chiacchierone esagerato, tronfìo, quasi sempre innocuo, ma molto, molto fastidioso.

Il nuovo sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, a volte tende ad essere buffone.

Esserlo, non farlo.

Della sua vittoria, ovviamente, mi sono compiaciuto visto che l’alternativa era Lettieri, una sorta di uomo d’affari scelto da Gianni Letta, e “organizzato” da Nicola Cosentino e Luigi Cesaro; il voto che ha portato de Magistris a Palazzo San Giacomo è stato sicuramente intessuto di buona volontà, di pulizia, di onestà. La gente migliore di Napoli ha affidato all’ex Pm il compito di cambiare la città.

Ci riuscirà?

Non lo so, vedremo.

Di certo, governare Napoli è molto più difficile che sedurla. Come una bellissima donna, fragile di nervi, la città si innamora in due minuti di chi sa guardarla negli occhi con fermezza.

Ma poi tenersela è tutt’altra storia.

Vedremo quanto de Magistris sarà capace di tenere teso il filo della speranza e, al tempo stesso, di confrontarsi con la durissima legge della gestione di un territorio a tratti ingestibile.

Una cosa, però, mi colpisce molto delle cose che va dicendo, in questi giorni.

Lui ripete che porterà la raccolta differenziata a Napoli al settanta per cento entro la fine dell’anno. Oggi la percentuale supera a malapena il venti. La differenziata si fa solo in alcuni quartieri (Chiaiano, Colli Aminei, Bagnoli), con risultati eccellenti. Per buona parte della città è una parola sconosciuta.

Il nuovo sindaco dice che lui, in sei mesi, ritira i cassonetti dalle strade, distribuisce a tutte le famiglie napoletane il kit, struttura un servizio di raccolta porta a porta, allestisce le isole ecologiche, e arriva al settanta per cento.

Ci riuscirà?

A me sembra una buffonata.

Gli esperti di differenziata sanno che nelle metropoli il sistema decolla con molta più fatica, ha più falle, territori più vasti, più dispersioni.

Nella classifica delle città con più di 500mila abitanti, il primato in Italia ce l’ha Torino. Con quale percentuale? Il 42 %. Le altre sono a livelli ancora più bassi. La media italiana è del 29 %.

Raggiungere il 70 per cento in sei mesi, quindi, è una missione impossibile. Oltretutto, con quali soldi? Con quali lavoratori? Non si sa.

Lunedì prossimo de Magistris farà la giunta. Uno degli assessori in pectore è Raffaele del Giudice, il direttore regionale di Legambiente. Mi vanto di essergli amico da vent’ anni. Lo stimo molto.

A Qualiano, sua città natale, nei primi anni Novanta, fui direttore di un giornalino che lui faceva con pochi volontari di Legambiente. Si chiamava Il Timone. Su quel giornale comparvero le prime denunce sul traffico di rifiuti nel Giuglianese. Io me ne occupavo contemporaneamente anche come corrispondente del Mattino.

Da allora sono passati molti anni, la situazione è peggiorata ma un uomo come del Giudice oggi corre per la poltrona di Assessore all’Ambiente al Comune di Napoli. Questo è per me un motivo di fiducia.

Spero in Raffaele molto più che in Luigi. Magari gli spiega che con i rifiuti è meglio non farsi “masto”.

Ci andasse piano, ma andasse lontano. Ci basta il trentacinque, e a dicembre festeggiamo.

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