La pistola in faccia

Mi si è fuso lo scooter, ne sto cercando un altro. Vivo in centro a Napoli e non posso usare che un mezzo a due ruote.

Avevo un Beverly 200, bellissimo, cadente come il settemino della nonna ma così fiero. Solo quindici anni di vita, aveva. Pensavo fosse adolescente. Io ho questo rapporto con gli oggetti che gli do l’età delle persone. Avevo pure un’auto di 18 anni, appena maggiorenne.

Li credevo giovani, invece erano da rottamare.

Così il mio Beverly mi ha detto addio, in mezzo al traffico, fumando come un ossessionato. Una nuvola bianca, delicata. Se n’è andato combattendo.

Così ne devo comprare un altro, e lo vorrei uguale. Romantico fesso. Ma uguale proprio, con tutti i graffi. E non si può. Allora cerco un altro Beverly, pazienza, più giovane.

L’ho trovato, evviva. Un fiammante 350, 2015, un neonato, stesso colore, a un ottimo prezzo. Lo vende una persona affidabile. Pare che per l’usato sia fondamentale. Mi sembra perfetto.

Sì, lo voglio.

“Attento, però – mi dicono saggiamente persone che tengono a me – questi a Napoli sono molti ricercati”.

“In che senso?”

“Se li fanno”.

“Vabbè, metto una catena, un blocco, una polizza per il furto, ho il box, faccio attenzione”, rispondo con leggerezza, perché il cuore ha già deciso.

“Non hai capito – ribadiscono – ti fermano per strada, ti puntano la pistola in faccia e se lo pigliano. I Beverly nuovi a Napoli sono come l’oro”.

Resto di ghiaccio. Non so che dire. Io voglio solo uno scooter, non voglio trovarmi con la pistola in bocca. Penso a me che torno di sera a casa, con la solita testa tra le nuvole, con la strada che si fa da sola. Penso che io con lo scooter attraverso i Quartieri Spagnoli. Poi vado verso Marano. Faccio Chiaiano, Piscinola, a volte pure Scampia. Forse la circumvallazione esterna. Luoghi che ho sempre sentito tranquillissimi, forse perché ci sono cresciuto. Sono un po’ casa, per me.

La pistola in faccia.

Di giorno, di sera. Mi ricordo che ne ronzano tanti, di scooter, quando giri. E molti ti fissano, è vero. Non pensavo che stessero valutando il valore del mezzo che portavo. Chissà quante volte lo hanno definito scassone, nei loro pensieri, il mio bellissimo Beverly quindicenne. Lo scassone che mi ha salvato.

Peggio ancora, penso a me con la mia compagna sul sedile di dietro, che torniamo contenti dal mare sullo scooter nuovo. La pistola in faccia.

Non so. Rinuncio?

“Pigliati un Kymco, non li rubano. Sono brutti ma vanno bene. Che te ne fotte?”, mi dicono.

Sì. Hanno ragione. E’ saggio. Si chiamano precauzioni. Non c’è nulla di male. Se indossi un prezioso e vai per strade buie, ti fregano. Sta a te non farlo accadere. Non dico che chi ruba smette di avere colpa ma un poco è colpa anche tua, no? Sei fesso, vai col rolex di notte nel vicolo.

E ti fottono, ‘o scé.

Si inverte l’onere. Dobbiamo autoproteggerci così, perdendo la libertà.

Mi fa rabbia, posso?  Qualunque limite mi fa rabbia. Questi poi. E’ saggio. E’ giusto. Io te l’ho detto, poi fai come ti pare. La rabbia sale. Questa ostinata, persistente ossessione dell’orrore che ci viaggia vicino, che ci sale addosso, che ci squadra, ci controlla, ci marca, ci scorta. Siamo sempre preoccupati. Scegliamo sempre condizionati. Questo sì, questo no. Statte accorto. Sì, sto attento. Va bene. Mo’ me la piglio io una pistola. Quanto può costare? Una pistola di 15 anni. Pistole in faccia, vediamo chi la abbassa prima.

Che stress, che ridere. Io volevo solo uno scooter.

Vedi tu, fai come ti pare. Io te l’ho detto. Il pericolo c’è, sta a te scegliere, alla fine, se ci vuoi finire dentro o ti vuoi cautelare. Si sceglie sempre, no?

Ma poi questi Kymco mica sono così brutti?

Tony Perduto nei misteri dei Quartieri

1418586172_Cover-Perduto-590x885Parte oggi una mia nuova, emozionante, avventura letteraria con uno degli editori italiani (per me) più belli. Considero una gran fortuna che le mie parole sia lavorate dalle mani magiche di Guanda.

Il 22 gennaio prossimo sarà pubblicato un mio romanzo giallo, forse, o noir, o investigativo, o tutt’e tre le cose insieme. Si intitola “Il mistero dell’orso marsicano ucciso come un boss ai Quartieri Spagnoli

Ve ne parlerò più avanti.

Oggi, invece, viene pubblicato (solo sul web) un mio racconto breve: ha al suo interno le stesse atmosfere del romanzo, e lo stesso protagonista, Tony Perduto. Lo trovate, se volete, sul sito del magazine Gq Italia. Dal 21 dicembre sarà, poi, in distribuzione gratuita, in e-book, su tutte la piattaforme. Un regalo di Natale che Guanda vuole fare ai suoi lettori, e soprattutto – diciamolo – a me.

Spero che vi vada di leggerlo e che vogliate condividere con me le vostre sensazioni.

Lasciare o restare? Magari fosse una scelta.

ImmagineSono molti anni che mastico, a bocca amara, la questione del rapporto con le radici. Il legame con il proprio luogo. La rete di affetti. Il desiderio di camminare sulle strade dove sono si è stati bambini, di veder crescere gli amici di infanzia, di battersi per il proprio quartiere, o di sostenere la vecchiaia dei propri genitori.

Vivere nella casa dove ha vissuto tuo padre, e prima ancora tuo nonno.

Prendere l’ombra della grande quercia.

Sento questo tema in prima persona perchè dentro di me è irrisolto. Combatto continuamente tra due tensioni opposte (andare, restare), e non ho mai saputo scegliere (alla fine, scegliendo).

Sia chiaro: non mi unisco all’eterna, e stucchevole, guerra tra chi va e chi rimane. A Napoli, in questo senso, c’è una sfida storica, e ridicola, alimentata da una certa pubblicistica improvvisata.

Chi resta si sente eroe in trincea e accusa chi se ne va di diserzione. Chi se ne va, al contrario, si sente uno buono, con la marcia in più, e accusa chi resta di essere bamboccione, o mediocre.

Io rifiuto questo teatro. Tutte le scelte hanno pari dignità. Ciascuno ha il sacrosanto diritto di andarsi a vivere la vita dove gli pare. Vuoi andare, vai. Vuoi restare, resta. Sono scelte individuali.

Tutto questo , però, vale finchè c’è lo spazio, appunto, per una scelta.

Negli ultimi quindici anni la sceltà non c’è stata quasi più. Andare è un obbligo. Tutto passa per il lavoro, e per la realizzazione di sé. La gente lascia il Sud, parte, anche a malincuore, per lavorare.

Soprattutto a malincuore. Non lo sceglie. Deve farlo.

Dal 1995 al 2008 hanno lasciato il Meridione per il Centro-Nord circa 2 milioni di persone. Di questi, un milione di età compresa tra i venti e i trentanove anni.

Altre 120mila persone lasciano ogni anno l’Italia per l’estero. Il 60 % proviene sempre dal Sud.

In sostanza, ci stiamo svuotando, come Paese, e come Meridione, delle migliori energie.

Alleviamo, facciamo studiare, i nostri giovani, e poi li regaliamo. Li facciamo giocare in un’altra squadra.

Altrove trovano opportunità che qui non hanno. Chance. Riconoscimento.

Il dramma non è solo il loro, che trovano la via, e magari vivono con l’occhio umido della nostalgia, con la fatica di recidere i legami, ma se ne fanno una ragione. Il dramma maggiore è del territorio. Senza le forze migliori, e senza gli strumenti a chi resta, c’è un irrimediabile impoverimento.

Non solo di denaro ma di energie.

È una Spoon River. Non c’è una famiglia che non abbia un figlio o un nipote lontano. Non c’è una famiglia che non pianga questo piccolo lutto. Io credo che questa sia una grande questione sociale del nostro tempo. Come si risolve? Non ho, ovviamente, soluzioni facili, se non quelle che possono nascere dall’analisi sociale, dall’interrogarsi, dall’indagare cause e tirare, quindi fuori, le risposte.

Credo che molto parta dal lavoro, e dallo sviluppo, e dalle opportunità, intersecando il tema del merito, dell’investimento sui giovani. C’è da rovesciare un modello sociale. Il cambiamento non è cosa da salotti, o da iniziative estemporanee, come siamo abituati a fare sull’onda di qualche evento di cronaca.

Non servono le risposte emotive, ci vuole un progetto. Va attivato un meccanismo profondo.

In “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, con un passo leggero, una piccola narrazione, di una piccola storia paradossale e provocatoria, ho provato a mettere in fila i fattori che bloccano i giovani talenti del Sud: mancato accesso al credito, burocrazia, condizionamenti ambientali, corruzione, camorra.

Si è aperto un dibattito ampio, interessante. Spero che sia servito a dare qualche chiave. Il racconto dei problemi, per chi sa leggerlo, contiene anche le soluzioni, e credo che questo sia il principale contributo che un libro, un lavoro culturale, un giornalista, uno scrittore, possano dare al proprio territorio.

Da martedì 19 marzo sarà in tutte le librerie una mia nuova storia.

Si intitolerà “Tre terroni a zonzo – Lasciare Napoli o restare?”.

Parlerò sempre dei giovani del sud, ma da un’altra angolazione, quella, appunto, della migrazione.

Andare o restare?

Viene pubblicato anche questa volta da Sperling & Kupfer. é un’ideale continuazione del primo libro. Ci sono la stessa ambientazione, lo stesso stile, una lingua semplice, una tonalità lieve per tentare, però, di indagare una questione complessa. I protagonisti, questa volta, sono tre: Ilaria, Michele, e Diego Armando. Si laureano brillantemente, nei tempi giusti, e col massimo dei voti. Ma la sera della festa sale l’ombra della domanda terribile: “e adesso? che si fa?”.

Ilaria e Michele non hanno dubbi. Se ne vanno da Napoli “Qui si muore”, dice Ilaria, “non c’è futuro”. Lei va a Milano, Michele a Londra. Lì trovano lavoro, ma non solo. Diego Armando, forse anche per il nome che porta, vuole restare. Vuole restare a Napoli. Per lui, il cammino sarà più duro. Il libro racconta le storie parallele dei tre, nei primi due anni dopo la laurea. E’ una storia di emozioni, di vita quotidiana. Una narrazione. Ma traccia anche una mappa. Ha una conclusione che apre alla speranza, e dice, in fondo, che la strada per restare c’è.

Ci può essere.

Spero che questo libro, come il precedente, sia accolto con benevolenza e attenzione.

E che possa essere un contributo utile per aprire uno squarcio su una grande questione sociale, e trovare insieme la via per affrontarla.

Bla, bla, bla, blatte.

«Gesù, ‘na blatta». Concetta, una signora che abita un basso dei Quartieri Spagnoli di Napoli, alla vista dell’orribile scarabocchio di ali e zampe, è saltata dalla sedia, dove passa circa diciotto ore al giorno, ha afferrato una scopa e ha scagliato una potenza di mazzate sul povero insetto da spezzarlo in tre tronconi, tutti orridamente in fuga con gli ultimi spasmi di vita.

Insieme al colpo, Concetta ha lanciato anche l’urlo ripetuto del pericolo che, come la voce di un muezzin, nei Quartieri, allerta tutti su ogni rischio. Fuori del basso si è radunata una folla pensosa e contemplativa, che ha visionato i resti della blatta, e ha cominciato a tessere teorie.

«Quest’anno sono lunghe il doppio», ha osservato Luigi, il salumiere del vicolo, «deve essere il caldo».

«Qua’ caldo?», ha replicato la moglie, «quella è la monnezza. Chissà che ci sta in queste fogne».

«Ma come ha fatto a venire fino a qui?» si è rammaricata Concetta, «io ogni mattina butto mezzo litro di candeggina per tutta la strada».

«Ci vuole il flit», ha sentenziato Filomena, del basso accanto, «io lo spruzzo tre volte al giorno».

«E comunque stanno qua, ’sti disgraziate», ha detto amareggiata Concetta, «mo’ come facciamo?».

Non ha finito di chiederselo che dal primo piano è sceso don Antonio, con un secchio di polvere bianca e una paletta. Con precisione ha seminato la traccia di veleno lungo tutto il perimetro del palazzo, poi del vicolo, che ha assunto, così, l’aspetto di una trincea invalicabile.

«Venite, mo’, venite», ha sibilato don Antonio.

Da alcuni giorni a Napoli c’è una nuova, piccola isteria collettiva. L’invasione delle blatte, l’hanno chiamata i giornali. Il quotidiano francese Le Monde ha dedicato al caso mezza pagina. Insetti lunghi e rossi, sostanzialmente inoffensivi, ma orrendi, escono dalle fogne e invadono marciapiedi, giardini, bassi, negozi e – essendo agili -, anche qualche primo piano, guadagnato con ardite arrampicate sui tubi esterni delle abitazioni.

Nei quartieri «alti» del Vomero e Posillipo si segnalano i casi più numerosi e frequenti. Non si sa se perché le blatte sono davvero di più o se fanno solo più impressione al nasino di chi ci vive. Dal centro storico si lamentano meno ma, come ai Quartieri spagnoli, qualche blatta è comparsa, seminando panico ma anche reazioni. Disinfestazioni fai da te. Del resto, Napoli è una città abituata a fare così. I quartieri si attrezzano e, nelle emergenze, soprattutto quelle sanitarie, corrono ai ripari con le loro mani.

Puliscono, disinfettano, lustrano, si lamentano ma non protestano.

Secondo gli esperti del Policlinico di Napoli, le blatte possono condurre infezioni. Ma i rischi non sono altissimi. Lo choc per chi se le ritrova a camminare sui piedi, però, è garantito.

La comparsa delle blatte ha scatenato immediatamente le tifoserie storiche degli «amici di Napoli» e dei «nemici di Napoli».

Gli amici di Napoli hanno sempre un complotto nel cassetto. Negano che ci sia una invasione, sostengono che con il caldo, gli insetti escono ovunque, e che a ben vedere le blatte ci sono anche a Roma e a Milano e a New York. «Solo che lì i giornali non ne parlano. Invece se c’è da parlare male di Napoli, sono tutti pronti».

I nemici di Napoli – considerati tali dalla controparte -, invece, hanno trovato nuovi argomenti per invocare la fuga, il peccato insanabile, la malattia terminale di una città senza speranza. Il sindaco rivoluzionario de Magistris ha ironizzato con un tweet sul fatto che a Napoli, ormai, pure le blatte sono rosse. Anche lui, però, nega l’emergenza. Si è detto pronto a querelare Le Monde e tutti i poteri forti planetari che vogliono dare una immagine negativa della città di Napoli, perchè oggi, con la rivoluzione, Napoli fa paura al mondo.

In realtà sarebbe bastato fare un po’ di manutenzione delle fogne, una disinfestazione ad aprile, e con il caldo rovente di questi giorni, nemmeno una blatta sarebbe comparsa sulle strade.

Ma questa è una riflessione troppo ordinaria. Andrebbe bene per una città normale. Non per Napoli. Qui il dramma sferraglia sempre sullo show. Qui, il sindaco denuncia Le Monde e il liberismo selvaggio, e la signora Concetta, ogni mattina, da una settimana, raddoppia la dose di candeggina.

Poi guarda soddisfatta i lastroni bagnati e dice, ad alta voce, “meno male che ci sto io sopra a questi Quartieri”.

E meno male.

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