Poi esce il cuore

Sta girando molto la foto di un barista spagnolo che blocca la polizia e dà rifugio, nel suo locale, a decine di manifestanti inseguiti dalle cariche.

Tempo fa ricostruendo una storia realmente accaduta, provai a raccontarla così.

Mi piace ripubblicarla qui, adesso.

 

 

 

 

La Garbatella di Alvaro

 

 

“me la racconti questa storia?”

“lascia stare”

“perché?”

“non è più il tempo”

“ma io vorrei sentirla”

“e io non la voglio raccontare”

“e se insisto?”

“lo sai che non mi va”

“lo so”

“e allora non insistere”

“ma ogni tanto torna nei discorsi di tutti; l’altra sera alla villetta se n’è uscito uno dicendo che Genova non è niente e che non puoi sapere che cos’è la rivolta se non sai quella storia”

“ma lo voi capì che è finito il tempo, che era un altro mondo?”

“come la fai lunga, non sono manco quarant’anni. Era l’altro ieri”

“un altro mondo”

“senti, io voglio questa storia perché voglio scrivere un racconto”

“che vuoi scrivere?”

“un racconto”

“sarebbe?”

“tu racconti la storia a me e io la scrivo”

“e poi?”

“e poi la regaliamo alla memoria”

“mi fai sorridere”

“non dovresti”

“ti devo prendere sul serio?”

“non puoi tenere quella storia per te”

“ma se ne è parlato tanto”

“ma nessuno c’è stato dentro, e tu sei quella storia”

“quella storia non sono io, quella storia è la Garbatella”

“e raccontiamola”

“mi fai sorridere”

“non dovresti”

“e se te la racconto, che fai? Prendi appunti?”

“registro la tua voce”

“addirittura?”

“sì”

“e perché?”

“perché la memoria deve avere una voce”

“e allora prendi il registratore e vieni alla finestra”

“sì?”

“sì”

“sono pronto”

“lo vedi laggiù quello slargo sotto la scalinata che va verso il ponticello della vecchia ferrovia?”

“quello sotto piazza Brin?”

“sì”

“lo vedo”

“è cominciata lì. Ventisette maggio millenovecentosettanta. Il primo fu Marchetto, il figlio del lattaio”

“il commercialista?”

“esatto. Oggi ha lo studio qui di fronte. Allora avrà avuto dieci anni. Giocava a pallone con il fratello Gigi e due amici, i gemelli Lorìa”

“i nipoti della sora Mariella”

“sì. Giocavano a tirare i rigori quando videro arrivare una trentina di poliziotti. Era un intero plotone della ps, celerini. Avevano il manganello, il casco, lo scudo. Si schierarono in assetto. Davanti a tutti, uno in giacca con la fascia tricolore e un megafono. Urlò ai ragazzini di andare via. Loro li guardarono un po’ stralunati. Ma che vonno? Dalla finestra del lotto 54 arrivò un urlo. Se la stanno a piglià coi regazziniiiiiiiii. Quella voce corse terrorizzata lungo tutta la discesa, fino all’albergo, entrò nelle case, dalle finestre, scosse persiane, proprio come il vento. In quel momento Marchetto fece una cosa incredibile”

“cosa?”

“prese una pietra, la sollevò e la lanciò contro i poliziotti, beccando il casco di uno. Un gesto inutile, se ci pensi. Ma forte. Un ragazzino di dieci anni, trenta poliziotti schierati e questo ti lancia la pietra. Poi si gira verso gli altri e dice: ’scappamoooooooooo’. ”

“e la polizia?”

“la polizia non se l’aspettava, non sapeva che fare. Si guardarono tra loro e tutti guardarono il funzionario. Che facciamo, carichiamo?”

“caricarono?”

“no. Ognuno di quei poliziotti aveva qualche bambino a casa. Non caricarono. Trenta poliziotti dietro a quattro bambini lungo una scalinata. No, non caricarono. Ma salirono lentamente verso la piazza”

“per andare dove?”

“per entrare alla Garbatella, piazza Brin era un punto strategico. Stavano caricando gli studenti a San Paolo. Si erano riuniti lì, come sai, per il vertice Nato. Erano i tempi di Mao, del Vietnam, della Cambogia, e di Potere Operaio. Gli studenti si erano radunati a San Paolo per marciare verso il palazzo dei congressi e bloccare il vertice degli americani. Figuriamoci”

“cosa?”

“velleità”

“sogni”

“cazzate”

“ideali”

“avevano tempo da perdere e il soldo in tasca. Ma gli piaceva sentirsi grandi. Quando la polizia li caricò salirono alla Garbatella, si sparsero terrorizzati nei viali, correvano che sembravano cavallette e dietro di loro nuvole di fumo, spari, fischi, rumore di tantissimi passi”

“fu allora che successe qualcosa”

“successe che si aprirono le case del quartiere. La sora Lucia, quella che è morta due anni fa sotto una macchina, mise una ventina di limoni a spicchi su un vassoio e scese per strada. Ne dava ai ragazzi e glieli faceva mordere per non sentire i lacrimogeni. Un altro gruppo di donne si sistemò all’inizio del lotto 54, dove c’era la Standa, e qui si apriva in blocco, come un portone, per far passare i ragazzi e poi si chiudeva. Da sotto, un plotone di ps osservava la scena e non sapeva se caricare o no quella ventina di tardone con grembiuli da massaie e fazzoletti annodati in testa. Anche in quel caso, la polizia lasciò stare. E le donne, intanto, sistemarono i ragazzi nelle case e sbarrarono i portoni”.

“la guerriglia, però, ci fu”

“certo”

“tu dov’eri?”

“al bar di piazza Biffi a giocare a carte”

“non sapevi degli scontri?”

“avevo sentito qualcosa. Scendendo di casa sentivo un megafono che gracchiava giù al parco Schuster. Anni dopo ho saputo che era un certo Scalzone. All’epoca urlava come un disperato e diceva a tutti di andare a San Paolo. Avevo visto questa colonna di studenti che si allungava e la polizia da lontano. Pensai che li avrebbero corcati a dovere e forse non mi dispiaceva nemmeno”

“poi?”

“poi è uscito il cuore della garbanza e ci siamo buttati in mezzo”

“riprendiamo dal lotto 54”

“lì la ps arretrò e si disperse nei vicoli. Si vedeva che erano disorientati, quasi cercavano la strada per tornare. Intanto, però, un plotone di polizia si diresse verso il cinema, dove stavano facendo un’assemblea e a piazza Bartolomeo Romano ci fu uno scontro che impressionò tutti quanti. Menavano come i pazzi e gli studenti piangevano e scappavano da tutte le parti. Quelli li bloccavano e li massacravano di manganellate. Poi li lasciavano a terra nel sangue. Penso che fu lì che la Garbatella decise che non sarebbe rimasta a guardare. In cinque minuti non si capì più nulla. Gli studenti scappavano, la polizia li inseguiva e la gente del quartiere inseguiva la polizia. Alla fine non si capiva più chi caricava chi e pure gli studenti presero coraggio. Un gruppo di poliziotti si trovò imbucato al lotto 25 e qui, dai finestroni, cominciarono a volare vasi, insalatiere, pentole, mattarelli, secchi e secchiate d’acqua, sedie, qualcuno scese nel giardino e sciolse i cani. La signora Mattace, la mamma di Gianluca, scese addirittura per strada con la scopa e cominciò a menare col manico un povero poliziotto che non sapeva che fare”.

“una rivolta popolare?”

“core de mamma”

“il popolo”

“gente che difendeva ragazzi che potevano avere l’età dei loro figli, gente che vedeva il sangue e non ci stava. Intanto nei vicoli s’erano allungati, penso, un migliaio di poliziotti”

“e tu dov’eri?”

“io ero sull’uscio del bar, a guardare”

“non ti buttasti nella mischia?”

“no”

“perché?”

“perché avrei dovuto?”

“lo stavano facendo tutti”

“più le donne, noi uomini stavamo fermi”

“perché?”

“se ci fossimo mossi noi sarebbe successa la guerra. La polizia si trattiene se ci stanno di mezzo donne di casa, mamme di famiglia”

“intanto la battaglia era scoppiata”

“ormai si sentivano botti e si alzava il fumo da ogni parte.Via delle Sette Chiese era tutto un lampo. Si sentivano botti fino a via Benzoni. Via Caffaro e via Magnaghi erano due piste da corsa: gente che scappava, oggetti che volavano”

“paese sera parlò di guerriglia e di selvaggia caccia allo studente”

“io avrei parlato di selvaggia caccia alla divisa. Le botte le presero più loro”

“ma a un certo punto la situazione cambiò”

“sì, successe una cosa che non doveva succedere”

“cioè?”

“la polizia dava la caccia agli studenti, le donne aiutavano i ragazzi e alla fine tutti si fermavano, nessuno insisteva. Questa cosa durò un paio d’ore in tutti i lotti tra piazza Masdea, la scuola dei bimbi e piazza Sauli. Solo che a un certo punto, tra gli alberghi e il 27, partì una bottiglia molotov e centrò una camionetta dei carabinieri che risaliva via da Cesinale; la camionetta andò a fuoco. I carabinieri uscirono giusto in tempo, videro la morte in faccia, la peggio morte. Fu così che caricarono le donne”

“addirittura?”

“sì”

“e quindi?”

“intervennero gli uomini”

“capisco”

“già”

“dove?”

“verso la villetta. Una cosa leggera, solo per difendere le donne ma quelli videro arrivare una ventina di maschi incazzatissimi. E successe davvero la guerra. Cominciarono a sparare lacrimogeni che finivano sui tabelloni elettorali dove c’erano i manifesti delle prime regionali. Si alzava il fumo e la gente piegava la testa e le ginocchia; arrivavano bastonate a sangue e si sentivano, nel buio e nel fumo, urla e gemiti”

“tu dov’eri?”

“sempre sull’uscio del bar a piazza Biffi”

“non facevi nulla?”

“non mi riguardava”

“ma pestavano tutti”

“ a me no”

“guardavi?”

“sì, guardavo. Vidi una carica dei carabinieri spingere un piccolo gruppo in un vicolo, un paio di loro ruzzolarono, altri si chiusero nelle case e sbarrarono le porta. Ma i carabinieri sfondarono alcuni usci e, non si capisce perché, fecero irruzione nelle abitazioni”

“lì ci fu la guerra?”

“botte da orbi; alla villetta picchiarono anche il fotografo di paese sera, Brucoli, che si beccò uno sbreco in faccia. Carletto mi raccontò che lui fu menato col calcio del fucile dietro la schiena. Poi la carica si fermò e i carabinieri arretrarono. Mentre andavano, tra via Lasagna e via Persico, videro una decina di studenti stremati stesi sul marciapiede. Si avventarono addosso a loro, questi ripresero a scappare e pensarono bene di correre nel bar”

“dove stavi tu?”

“sì, io e tre amici”

“chi erano?”

“Michelone, Silvano e Luciano”

“oggi nessuno di loro è vivo”

“eh, me lo devi ricordare per forza?”

“scusa. Che faceste?”

“ci spostammo e facemmo entrare gli studenti. Michelone li sistemò dietro al bancone e gli diede da bere. Noi tre ci rimettemmo sull’uscio. I carabinieri si fermarono a guardarci. Erano una quarantina, noi tre. Ma ci guardammo con rispetto. Noi non ci muovemmo e nemmeno loro. Secondo me siamo stati fermi così per almeno quindici minuti, a guardarci”

“a quel punto c’entravi pure tu”

“per forza”

“fu così che entrasti nella rivolta”

“nun ce volevo entrà”

“ma oggi tutti ti ricordano. Quando parlano della rivolta della Garbatella dicono la guerra di Alvaro”

“e si sbagliano, io me ne stavo per i cavoli miei”

“racconta”

“noi tre stavamo sulla porta e i carabinieri ci guardavano. A un certo punto arriva un funzionario con la fascia tricolore; si fa avanti e ci dice ‘toglietevi di mezzo, dobbiamo arrestare quei ragazzi’”

“e tu?”

“e io gli dissi che quei ragazzi si stavano rinfrescando il viso dopo tutte le botte prese. Lui rispose che uno di loro aveva lanciato la bottiglia incendiaria e doveva essere arrestato”

“e tu?”

“e io gli ridissi che quei ragazzi si stavano rinfrescando il viso. Il funzionario mi guardò e rimase in silenzio. Poi arrivò Peppone la guardia, il figlio di Ciccio. Peppone era un poliziotto ma era pure uno del quartiere. Stava in borghese e mi disse “ a sor arvà, meglio che ve togliete de mezzo, stateme a sentì, nun so’  fatti vostri. Lasciateglie prende sti ragazzi”. Io non gli risposi nemmeno. Nella folla si fece strada pure Paolo il ciancicone, il commissario della Garbatella. Ci conoscevamo, era stato un mio tifoso quando feci il titolo italiano dei massimi. Pure lui aveva tirato di pugilato, poi smise ed entrò in polizia. Ci stimavamo e lui mi venne vicino, mi appoggiò la mano sulla spalla e mi disse “Arvà tu sei un uomo serio, ci conosciamo da tanti anni; levati di mezzo, lascia stare. Lasciagli prendere questi ragazzi, e chiudiamo questa storia”.

“e tu?”

“ io gli dissi a ciancicò, nun se menano i prigionieri’. lui scosse la testa e girò le spalle”

“tu li conoscevi i ragazzi?”

“nemmeno uno”

“e perché li difendesti?”

“perché stavano alla Garbatella, stavano nel mio bar, l’avevano spezzati de botte, avevano vent’anni e perdevano sangue e piangevano e…”

“e…”

“e a un certo punto Silvano urlò  ‘mica stiamo ai tempi dei nazisti? ‘Amo fatto la resistenza, nun ce fanno paura quattro stronzi con la divisa’. Fu in quel momento che scoppiò la guerra di cui si parla”.

“la guerra di Alvaro”

“furono trenta, quaranta minuti; il funzionario ordinò la carica, questi si buttarono a testa bassa e cominciarono a menare. Io mi irrigidii sulla porta e li aspettai. Ne stesi cinque, con il montante destro”

“il tuo colpo”

“una botta secca sotto al mento, l’unico posto lasciato libero dal casco. Poi cominciai a menare di gomito e calci. Intanto Silvano e Luciano erano stesi, qualche carabiniere riuscì a entrare nel bar e pensava di avercela fatta. Ma non calcolò l’imprevisto”

“la gente”

“arrivarono almeno centocinquanta persone da tutto il quartiere. Maschi, vecchi, ragazzini, donne, mamme, zie, nonne, da tutti i vicoli, dai lotti di sopra, dalle strada dietro agli alberghi; e ognuno di loro aveva in mano un oggetto. Chi un vaso, chi un cucchiaio di legno, chi uno sgabello. Si buttarono urlando nella mischia e menarono tante di quelle botte sui carabinieri che a un certo punto cominciai a prendere quelli in divisa e li guidavo in strada, lanciandoli lontano per farli andare via, prima che li uccidessero. Nella confusione anche i ragazzi tentarono di scappare ma la gente della Garbatella li bloccò lì”

“perché?”

“perché dovevano consegnarsi”

“questa cosa non l’ho mai capita”

“te la spiego”

“sì”

“se uno di quei ragazzi aveva lanciato una bottiglia incendiaria sui carabinieri, rischiando di ammazzarli, doveva consegnarsi e prendersi la sua responsabilità. La gente del rione li ha difesi dalle botte, dal massacro, dalle ossa rotta e dal pestaggio. Ma poi si dovevano consegnare, se erano stati loro. Questo voleva la gente della Garbatella”

“mi piacerebbe parlare di questa gente”

“che c’è da dire?”

“valori antichi, profondi”

“gente semplice”

“e i ragazzi che fecero?”

“si guardarono intorno e capirono che era il caso di fare la cosa giusta”

“quindi?”

“si fece avanti un certo Guglielmo; i carabinieri si erano allontanati, io feci uscire i ragazzi dal retro e presi Guglielmo sotto braccio. Uscimmo sulla strada, le donne, i maschi, i bambini, le vecchie e i vecchi della Garbatella tornarono alle loro case e io andai, con Guglielmo sotto braccio, verso il commissariato. Trovai ciancicone sulla porta, gli diedi il ragazzo. ‘Mi raccomando’, dissi, ‘nun glie mettete le mani addosso’. Il commissario annuì, prese il ragazzo e se lo portò”

“e tu?”

“e io tornai al bar, passando nel vicolo più lungo del rione, tra gli ultimi fumi dei lacrimogeni, i vetri rotti, guardando da lontano una colonna di camionette che si allontanava e vedendo, dal lato opposto, file di gente che tornava a casa sua, arrampicandosi lungo i viali”

“i viali del quartiere”

“sì”

“la guerra di Alvaro era finita”

“fammi un favore ”

“sì”

“questo racconto non lo chiamare la guerra di Alvaro”

“e come lo devo chiamare?”

“fai tu”

“va bene, nonno”.

Bla, bla, bla, blatte.

«Gesù, ‘na blatta». Concetta, una signora che abita un basso dei Quartieri Spagnoli di Napoli, alla vista dell’orribile scarabocchio di ali e zampe, è saltata dalla sedia, dove passa circa diciotto ore al giorno, ha afferrato una scopa e ha scagliato una potenza di mazzate sul povero insetto da spezzarlo in tre tronconi, tutti orridamente in fuga con gli ultimi spasmi di vita.

Insieme al colpo, Concetta ha lanciato anche l’urlo ripetuto del pericolo che, come la voce di un muezzin, nei Quartieri, allerta tutti su ogni rischio. Fuori del basso si è radunata una folla pensosa e contemplativa, che ha visionato i resti della blatta, e ha cominciato a tessere teorie.

«Quest’anno sono lunghe il doppio», ha osservato Luigi, il salumiere del vicolo, «deve essere il caldo».

«Qua’ caldo?», ha replicato la moglie, «quella è la monnezza. Chissà che ci sta in queste fogne».

«Ma come ha fatto a venire fino a qui?» si è rammaricata Concetta, «io ogni mattina butto mezzo litro di candeggina per tutta la strada».

«Ci vuole il flit», ha sentenziato Filomena, del basso accanto, «io lo spruzzo tre volte al giorno».

«E comunque stanno qua, ’sti disgraziate», ha detto amareggiata Concetta, «mo’ come facciamo?».

Non ha finito di chiederselo che dal primo piano è sceso don Antonio, con un secchio di polvere bianca e una paletta. Con precisione ha seminato la traccia di veleno lungo tutto il perimetro del palazzo, poi del vicolo, che ha assunto, così, l’aspetto di una trincea invalicabile.

«Venite, mo’, venite», ha sibilato don Antonio.

Da alcuni giorni a Napoli c’è una nuova, piccola isteria collettiva. L’invasione delle blatte, l’hanno chiamata i giornali. Il quotidiano francese Le Monde ha dedicato al caso mezza pagina. Insetti lunghi e rossi, sostanzialmente inoffensivi, ma orrendi, escono dalle fogne e invadono marciapiedi, giardini, bassi, negozi e – essendo agili -, anche qualche primo piano, guadagnato con ardite arrampicate sui tubi esterni delle abitazioni.

Nei quartieri «alti» del Vomero e Posillipo si segnalano i casi più numerosi e frequenti. Non si sa se perché le blatte sono davvero di più o se fanno solo più impressione al nasino di chi ci vive. Dal centro storico si lamentano meno ma, come ai Quartieri spagnoli, qualche blatta è comparsa, seminando panico ma anche reazioni. Disinfestazioni fai da te. Del resto, Napoli è una città abituata a fare così. I quartieri si attrezzano e, nelle emergenze, soprattutto quelle sanitarie, corrono ai ripari con le loro mani.

Puliscono, disinfettano, lustrano, si lamentano ma non protestano.

Secondo gli esperti del Policlinico di Napoli, le blatte possono condurre infezioni. Ma i rischi non sono altissimi. Lo choc per chi se le ritrova a camminare sui piedi, però, è garantito.

La comparsa delle blatte ha scatenato immediatamente le tifoserie storiche degli «amici di Napoli» e dei «nemici di Napoli».

Gli amici di Napoli hanno sempre un complotto nel cassetto. Negano che ci sia una invasione, sostengono che con il caldo, gli insetti escono ovunque, e che a ben vedere le blatte ci sono anche a Roma e a Milano e a New York. «Solo che lì i giornali non ne parlano. Invece se c’è da parlare male di Napoli, sono tutti pronti».

I nemici di Napoli – considerati tali dalla controparte -, invece, hanno trovato nuovi argomenti per invocare la fuga, il peccato insanabile, la malattia terminale di una città senza speranza. Il sindaco rivoluzionario de Magistris ha ironizzato con un tweet sul fatto che a Napoli, ormai, pure le blatte sono rosse. Anche lui, però, nega l’emergenza. Si è detto pronto a querelare Le Monde e tutti i poteri forti planetari che vogliono dare una immagine negativa della città di Napoli, perchè oggi, con la rivoluzione, Napoli fa paura al mondo.

In realtà sarebbe bastato fare un po’ di manutenzione delle fogne, una disinfestazione ad aprile, e con il caldo rovente di questi giorni, nemmeno una blatta sarebbe comparsa sulle strade.

Ma questa è una riflessione troppo ordinaria. Andrebbe bene per una città normale. Non per Napoli. Qui il dramma sferraglia sempre sullo show. Qui, il sindaco denuncia Le Monde e il liberismo selvaggio, e la signora Concetta, ogni mattina, da una settimana, raddoppia la dose di candeggina.

Poi guarda soddisfatta i lastroni bagnati e dice, ad alta voce, “meno male che ci sto io sopra a questi Quartieri”.

E meno male.

Se Giorgio Bocca fosse nato a Napoli nel 1980

Mettiamo che nel 1980, a Napoli, un uomo di nome Gennaro Bocca abbia avuto un figlio maschio, e abbia deciso impunemente di chiamarlo Giorgio.

Giorgio Bocca.

L’uomo è un operaio dell’Olivetti di Arcofelice, Pozzuoli. Qui è nato l’embrione del primo personal computer, e qui Adriano Olivetti, e il grande scrittore Paolo Volponi, hanno disegnato, in faccia al mare flegreo, la fabbrica dal volto umano.

Gennaro Bocca ha assemblato tutta la vita macchine da scrivere, e il figlio, a furia di battere su quei tasti, all’età di tredici anni, comincia a dire a tutti che vuole fare il giornalista.

Si chiama Giorgio Bocca, è nato a Napoli, vive a Pozzuoli, ha tredici anni, è figlio di operaio, e nel 1993 decide che vuole fare il giornalista. Lo dice a tutti, e un po’ gli ridono dietro.

“Ti chiami Giorgio Bocca e vuoi fare il giornalista? E meno male che non ti chiami Totò Riina”, commentò lo zio Franco, fratello della madre, che aveva una edicola a Napoli e che, per questo, tutti chiamavano “giurnalista”, cioè quello che vende i giornali.

Il piccolo Giorgio si tiene stretto il suo sogno. Anzi, la clamorosa omonimia lo gasa. Si sente quasi un predestinato.

Quando i suoi amici giocano a calcio lui fa la telecronaca a bordo campo.

A sedici anni, Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, decide di fare il passo. Scrive una lettera ad un caporedattore di un grande giornale. Si firma solo Giorgio, senza il cognome.

Viene convocato nel giro di due settimana. Il caporedattore gli fa visitare la redazione, lo porta in tipografia, nelle stanze circolari come giostre. Lui ne è inebriato. Ma quando chiede di lavorare lì, l’uomo sorride e gli dice “sei troppo giovane, questo è un grande giornale. Fai diciotto anni, un poco di esperienza coi giornalini della scuola, e poi ne parliamo”.

Solo questo gli doveva dire.

Giorgio non torna nemmeno a casa che già bussa al portone di un mensile locale. Chiede di scrivere. Gli dicono, va bene, proviamo, scrivi un articolo al mese su quello che succede nelle scuole della città.

Lui comincia, il primo articolo è da buttare. Glielo fanno ripetere cinque volte. “Questo è un temino, ragazzo”, gli dicono, “tu devi scrivere le notizie mica i pensierini”. Alla sesta volta, Giorgio capisce e scrive il pezzo giusto. In pagina, senza nemmeno una modifica.

Quando esce, Giorgio compra sei copie del giornale in sei edicole diverse. Non ci può credere che su ognuna ci sia il suo nome, e il suo articolo.

Dopo un paio di mesi, il direttore del giornale gli affida la cronaca nera, e poi la politica. Giorgio arriva a firmare pure otto pezzi a numero. “Il ragazzo è bravo – disse il direttore al papà -. Ma fosse veramente un predestinato?”

Ai genitori importava una cosa sola: il diploma, e poi la laurea.

“Ti devi istruire”, gli dicevano. Ma Giorgio Bocca pensava solo ai giornali. Ragionava, ormai, come una notizia. Ogni cosa che vedeva la scomponeva, e la ricostruiva con i fatti nelle prime cinque righe.

Quando compì diciotto anni si ripresentò dal caporedattore del grande giornale. Aveva gli articoli in una cartella e disse: “eccomi qua, sono maggiorenne e ho fatto esperienza. Posso scrivere?”.

Gli disse di sì.

Quando tornò a casa, però, non potè festeggiare. L’Olivetti, dopo varie trasformazioni, stava per chiudere, e il padre sarebbe finito in cassa integrazione. Due anni di sussidi, uno scivolo verso la pensione anticipata, quattro soldi in busta paga, e lo scippo del lavoro che avrebbe incupito l’uomo fino a svuotarlo.

Giorgio Bocca, per far contento il padre, si iscrisse all’Università. Ma contemporaneamente cominciò a lavorare col grande giornale. Prima con le brevi, senza firma. Poi qualche pezzo di piede, per la cronaca provinciale. Poi la prima apertura, in cronaca locale. Poi, di più. I primi tempi era lui a segnalare le notizie, e poi ad andare sul posto, e poi a tornare a casa, a scrivere, a mandare l’articolo via fax e, se a tarda ora, dettarlo ai dimafoni.

I pezzi glieli pagavano 15mila lire l’uno, ne riusciva a fare anche venti al mese. Erano 300mila lire, e per uno studentello non era male. A lui non sembrava vero di potersi pagare almeno la benzina nella macchina, e qualche libro all’università.

Dopo due anni divenne pubblicista. L’impegno col giornale era più intenso. Ogni tanto andava in redazione. Lo chiamavano abusivo. Non doveva rispondere al telefono, e se arrivava qualche pezzo grosso doveva dire che era di passaggio, era venuto a portare il pezzo.

Si sedeva alla scrivania col cappotto, e non se lo poteva togliere.

Ma lavorava felice perchè i tasti, i trilli, le gabbie grafiche, l’odore dell’inchiostro, le foto, l’equilibrio perfetto di un titolo, gli gonfiavano il cuore.

Nel Duemila entrò l’euro. Giorgio Bocca aveva vent’anni. Le sue 300mila lire divennero 150 euro, e ci metteva solo la benzina. In due anni di università aveva fatto solo cinque esami. La sua testa era altrove.

“Ma mi laureo, non ti preoccupare. Non è meglio che mi faccio pure una gavetta per il lavoro, papà?”.

Il padre non aveva più molta forza. Passava le giornate stancamente davanti alla tv.

Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, con la passione per i giornali, nel 2005 festeggiò cinque anni da pubblicista e quasi 500 articoli pubblicati. Aveva scritto di tutto, dallo sport agli omicidi di camorra. Tre volte in prima pagina. Solo col cognome, e col rimando all’interno, ma, oh, cazzo, era la prima pagina.

Ma l’assunzione?

Ogni tanto qualcuno gli diceva di tenere duro, di avere carattere, che ce l’avrebbe fatta.

Ogni tanto qualcun altro gli diceva “leva mano, qua sta tutto in crisi, non ci saranno assunzioni”.

Qualche altro ancora gli diceva “vattene a Milano, lavori gratis per un po’ ma ti fai conoscere e quelli ti prendono, qui non hai futuro”.

Uno gli disse “fatti uno di questi master che stanno uscendo, diventi praticante, poi fai l’esame da professionista, uno stage, e stai con un piede dentro”.

Lui alzava sempre le spalle. Soldi per master o per soggiorni fuori, in famiglia, non ce n’erano. Di levare mano non se ne parlava.

Diceva a se stesso che con il suo amore per il mestiere ce l’avrebbe fatta. Prima o poi.

Ebbe un primo cedimento quando il giornale fece una batteria di assunzioni. “Una infornata”, dissero.

C’erano tre belle ragazze, oggettivamente. Più giovani di lui, e che avevano cominciato dopo, e che non si capiva bene come fossero state scelte. C’era il figlio di un imprenditore. Uno a cui non si poteva dire di no. E c’erano tre figli di giornalisti: i padri erano andati in pensione e avevano preso i figli.

E io? Cominciò a chiedersi Giorgio Bocca, nato a Napoli, nel 1980.

Decise di andare a parlare col direttore, e si stupì quando questi mostrò di non conoscerlo. “Lavori con noi?”, chiese. Nientedimeno?

Ci rimase così male che decise, per qualche giorno, di non farsi sentire.

Lo chiamarono e lui si fece negare. Poi tornò, e lo cazziarono. “Che si scompare così?”.

Fu felice del rimprovero.

Seguì il consiglio di un collega anziano, che aveva fatto causa anni addietro ed era stato assunto. Cercò di collaborare anche con altri giornali. E intensificò gli esami all’università.

Si laureò a 28 anni, nel 2008, e il giorno stesso della tesi, tornò a casa a scrivere. Avevano ammazzato uno e c’era mezza pagina da riempire.

Intanto, nel grande giornale, con cui scriveva ormai da otto anni, guadagnando, quando andava bene, 300 euro al mese, era cambiato il direttore. Decise di anticiparlo, e andarci a parlare prima che prendesse confidenza.

Portò parte degli articoli e si vestì di faccia tosta. “Ma tu davvero ti chiami Giorgio Bocca? Ma vedi un po’”, disse il direttore. Che, dopo averlo ascoltato, disse: “ti tengo presente, magari per qualche sostituzione. Poi vediamo. Tu sei professionista?”.

“No, sono pubblicista”.

“Buonanotte. Come ti piglio? Devi diventare professionista, noi assumiamo solo professionisti”.

Il fatto è che per diventare professionisti devi essere assunto da un giornale. Ma un giornale ti assume solo se sei professionista. Il praticantato non lo fanno fare quasi più a nessuno.

Che inferno. Poteva fare una vertenza anche lui. Ma ci voleva la spinta. Poteva fare un master. Ma ci volevano almeno 15mila euro l’anno.

Non poteva fare un cazzo. Cioè, poteva fare l’unica cosa che sapeva: lavorare, lavorare, lavorare.

Riprese le sue collaborazioni. Scriveva quasi tutti i giorni. Trecento, quattrocento euro al mese. Si mise a dare lezioni private, la sera, un paio d’ore, per arrotondare. Poi scriveva temari per le case editrici, e tesi di laurea a pagamento.

Alcuni mesi arrivava a 800 euro.

Al giornale ripresero le assunzioni. Solo a tempo determinato. Solo professionisti. Qualcuno lo era diventato coi master, qualcun altro con le tv private, dove è più facile. Ma ci vuole la conoscenza.

“Guagliò, ma tu che vuoi fare?”, gli disse laconico il padre quando Giorgio Bocca fece trent’anni.

“Che voglio fare, papà?”

“Eh, che vuoi fare?”

“Voglio fare il giornalista”.

” E nun è cosa, figlio mio. Stai faticando da quando eri piccirillo e manco ti sistemi”.

“Papà ma io più di lavorare, di fare il mio dovere, che devo fare?”

“Ma sei sicuro che sei bravo? Forse non sei capace”.

“Mi fanno i complimenti, mi dicono che sono bravo, continuamente. Mi pubblicano tutto senza cambiare niente, e mi chiedono di scrivere. Se non fossi capace mi avrebbero preso a calci in culo, no?”

“E allora si vede che non è destino, trovati un’altra cosa”.

Giorgio insistette un altro anno. Poi il padre morì, all’improvviso, d’infarto, e la mamma rimase sola con la pensione minima. In quegli stessi giorni lo zio edicolante decise di ritirarsi e propose al nipote di prendere l’edicola in gestione.

“Volevi fare il giornalista? E fai ‘o giurnalist”.

Fu così che Giorgio Bocca, nato a Napoli nel 1980, piegò il suo sogno in quattro e si sistemò nel piccolo chiosco al centro di Napoli. Sempre in mezzo ai giornali, stava.

Il destino si era sbagliato di poco.

Il dentro e il fuori

Ho scattato questa foto a Roma, stamattina. È l’interno di un palazzo di via dei Due Macelli. Centro storico, due passi da piazza di Spagna.

All’esterno è un edificio curatissimo. Un bel portone, finestre con scuri in legno, un’insegna in marmo come un’antica iscrizione, un corridoio con lastroni di pietra antica.

All’interno, però, i balconcini affacciano sull’orrore.

Il retro è un mosaico di mille costruzioni addossate come Lego, microappartamenti che si disegnano nel vuoto. E poi motori dei condizionatori, verande arrugginite, arredi dismessi e ammassati.

Ne ho viste tante di scene così, a Roma.

La sensazione è di una città che si fa bella fuori, e nasconde il brutto sul retro.

Quando mi affaccio a quei minuscoli balconi interni penso a Napoli, a certi palazzi dei Quartieri Spagnoli, distrutti all’esterno, con intonaci cadenti, i bassi recintati con muretti di pietra scoperta, una selva di paletti e antenne paraboliche. Eppure capaci, all’improvviso, quando varchi il portone, di stupirti per la loro cura, per la pulizia, per il decoro, per certe, insospettabili, magnificenze.

Brutti fuori, belli dentro. Uno schema logico completamente rovesciato. Dev’essere il nostro destino.

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