Ama il tuo smartphone come te stesso

20120715-verona-lettura-dismappa-548Se una coppia fa colazione ai tavoli di un bar, e ciascuno di loro legge in silenzio, uno accanto all’altra, un giornale o un libro, li guardiamo e pensiamo che belli.

Se una coppia fa la stessa cosa ma con in mano gli smartphone pensiamo che orrore.

Eppure io sullo smartphone leggo il giornale o i libri.

Oggi Michele Serra, nella sua Amaca su Repubblica, ci spiega che esiste una vita reale e una vita digitale. E che, ovviamente, quella autentica è la prima. Perché tocchi le persone, le guardi negli occhi. Mentre con il dannato apparecchio tutto diventerebbe inumano.

Aggiunge che una pianta irrigata con un sistema automatico è meno in salute di una pianta innaffiata a mano. Non so da dove evinca questa certezza, così romantica ma  – mi perdoni Serra, che con questo cognome di piante e innaffiatoi… – così sciocca.

Non so se ci sono evidenze scientifiche per dire che i fiorellini preferiscono la mano dell’uomo a quella dell’irrigatore (o se si accorgono della differenza). Ma questo ragionamento mi sembra nascondere un pensiero che pare antico ma è vecchio, e tiene ancorato questo Paese a un destino di nostalgia e recriminazione, con i piedi nell’argilla e la testa rivolta all’eterno bianco e nero.

Non è questione di fiori e piante, naturalmente. Ma di senso della modernità.

Salto di tema e penso ad altre cose sentite ieri, durante un incontro pubblico. Si parlava di lavoro come diritto e di questi giovani che non protestano nonostante gli venga negato.

Alzate la voce, fatevi sentire, contestate!

Mi sono chiesto, lì per lì, ma contro chi e contro cosa? Contro lo Stato e contro i politici, evidentemente. Ma sono loro a dover “dare” il lavoro? O non è l’economia, cioè quel tessuto di produzione e intrapresa che ti rende necessario e quindi utile e dunque crea il lavoro, non diritto ma opportunità?

Capirei se allo Stato (e ai politici) si imputasse la colpa di non rimuovere gli ostacoli (burocrazia, credito, fisco, obesità normativa, corruzione, criminalità) allo sviluppo. Ma dire che bisogna protestare per il diritto negato al lavoro mi ha ricordato, anche qui, la nostalgia di un mondo andato. Quando si chiamava lavoro, l’assistenza. Quando servivano dieci persone e se ne assumevano cento (in modo clientelare), tenendone novanta a non fare nulla o quasi, caricando tutto sul debito: quello dei sistemi previdenziali e quello delle aziende pubbliche e quello del bilancio dello stato.

Un enorme mostruoso debito costruito da tutti, dall’usciere al dirigente, e che oggi chiamano diritti perduti, come se quel mondo di sprechi e piccole rendite parassitarie, costruito sulle generazioni successive, fosse lecito e non dannato.

Non ho nostalgia di quel tempo, quando le piante si innaffiavano a mano. Non ho alcuna nostalgia di nulla.

E amo il mio smartphone, cioè il mio sguardo sul futuro, la mia voglia di innovazione e trasformazione, il piacere di fare colazione con un amico e di compulsare insieme il cellulare, per sfottere il terzo nostro amico, che magari in quel momento è a Londra e con una videochiamata fa colazione insieme a noi.

Questa idea che gli aggeggi elettronici sono sempre videogiochi con cui uno, ipnoticamente, si assenta dalla vita reale per galleggiare nella second life di un nerd un po’ autistico, non fa nemmeno più ridere né tenerezza. Comincia a fare incazzare perché contiene tutta la sabbia mobile su cui periodicamente appoggiamo questa strana italiana ansia di cambiamento, che qui è sempre uno sguardo all’indietro, mentre si cambia in un solo modo: in avanti.

Lo scrittore Joseph Conrad, mentre cercava ispirazione, si tormentava: “Come spiego a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”.

Io, più modestamente, vorrei che qualcuno spiegasse a Michele Serra che quando guardo lo smartphone leggo Joseph Conrad.

Napoli nonostante Napoli

Sono felice di vedere Napoli traboccare di turisti. Li guardo infilarsi nei vicoli dei Quartieri Spagnoli senza paura, con la testa all’insù, con lo sguardo divertito, e ne sono orgoglioso.

Li vedo addentare la pizza fritta e pulirsi la bocca con il polso, come fanno gli scugnizzi. Li osservo mentre infilano le mani nelle cassette di frutta o fotografano i banchi di pesce nella Pignasecca. Li seguo, a volte, soprattuto gli stranieri, e vorrei prendermene cura. Vorrei dire ai ristoratori, ai baristi, ai commercianti: abbiatene cura, trattateli beni, una cosa in più e mai in meno, fateli risparmiare, fateli mangiare.

turistiMa non c’è bisogno. La città si è disposta con generosità. Vedo una febbre bella, come di speranza. In fondo, l’accoglienza qui è un tratto distintivo. Una specialità. Si fanno larghi i vicoli, si fanno stretti i muri quando tira il vento, si fa ampio il fianco su cui appoggiarti se esce un po’ di sole.

Sono felice di vedere Napoli così amata, anche perché cade finalmente l’alibi. Ma quale sputtanamento, ma quale cattivo racconto, ma quale sparlare, ma quale diffamazione, ma quale romanzo nero, ma quale dire solo il brutto e non il bello. Avete raccontato un sacco di fesserie. Napoli è amata nel mondo più di quanto lo sia dai suoi stessi cittadini.

Non ho mai trovato, nei miei giri in Italia e all’estero, qualcuno che alla parola Napoli non dicesse “meravigliosa”. La bellezza di questa città, la sua forza, il suo patrimonio sono ben noti. Non sono una scoperta di oggi né di ieri. Non sono offuscati dai rifiuti, dai problemi, dal racconto di questi né dalla camorra. Si può parlare dei problemi senza niente togliere a Napoli. Che, per fortuna, si dimostra sempre più forte di cattivi abitanti e cattiva politica, di cattiva cultura e piagnistei.

Sono felice di vedere tanta gente intorno a noi. Del resto, venire a Napoli oggi, con il Tav, e la campagna di sconti di Italo e Trenitalia, costa due soldi. Dormire a Napoli, con B&B e affittacamere aperti ovunque, soprattutto nelle zone popolari, nelle case stesse dei napoletani, costa nulla. Mangiare a Napoli, e bene, nei vicoli, costa meno di una prima colazione a Roma.

A conti fatti, con cento euro passi un week end in una meravigliosa città di mare, di paesaggio, di storia, di radici antiche, di chiese, di pittori, di scrittori, di atmosfere. Ti godi il centro, ignori le periferie, ridacchi sui disagi, tanto poi te ne vai.

E se esce il sole, ti fai pure il bagno.

Perché non dovrebbero venire a Napoli? Ci vengono e fanno bene. Ne sono contento anche perché, adesso, non abbiamo più alibi. Il mondo non ci odia. Lo vedete? Il mondo ci ama.

Ma l’amore degli altri è responsabilità. Se ci amano, nonostante tutto, forse dobbiamo meritarcelo. Forse dobbiamo smetterla di buttare i materassi vecchi a via Toledo, o le lavatrici a via Chiaia. Forse dobbiamo collocare una decina di bagni chimici a San Gregorio Armeno, dove li chiedono da anni e il Comune non risponde. Forse dobbiamo dare un senso a quel lungomare desolante fatto di venditori ambulanti e tavolini del bar, senza un filo di proposta culturale. Forse dobbiamo curare la villa comunale, abbandonata a se stessa. O spazzare la città, far muovere gli autobus, asfaltare le strade, illuminare i vicoli, far funzionare i semafori, attivare la videosorveglianza, mettere più vigili per le vie, proteggere le persone, tutelare i commercianti contro il racket e i teppismi, svuotare i cestini gettacarte, ripulire dal degrado i palazzi del centro antico, riaprire le 800 chiese chiuse, mettere almeno uno che parli inglese agli stazionamenti della metro e degli autobus, far partire la metro – non dico ogni due minuti – ma almeno ogni cinque e non ogni dodici; forse dovremmo meritarcelo tutto questo amore, tutta questa gente.

Forse dovremmo meritarcela, la fortuna sfacciata di essere Napoli senza saperlo diventare mai.

 

 

Un mosaico di letture


Sono oltre due mesi che l’Orso marsicano si aggira nelle librerie. Ha varcato il confine. Cammina anche in Francia. Ha macinato sguardi. E qualche silenzio. Ne abbiamo parlato in giro. Tante presentazioni. Altre ancora in programma. Più di tutto, è stato bello leggere le letture. Cioè la capacità del lettore di darmi chiavi di comprensione, o di sottolineare aspetti che credevo marginali, o di far brillare luci improvvise, nelle zone più d’ombra.
Tutto questo mi ha fatto ricco, di una ricchezza utile, con cui spero di riuscire a fare l’investimento giusto per nuove parole, nuove visioni.
Intanto voglio raccogliere qui, come su un mosaico, alcune delle opinioni che mi hanno colpito, gratificato, fatto sentire importante. Ce ne sono state anche altre. Se qui non ci sono è solo per la mia inguaribile distrazione.
Leggerle tutte insieme fa uno strano effetto.
Un curioso senso di riconoscimento, di cui sono grato.

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Una storia visionaria e allo stesso tempo realistica, quella scritta da Antonio Menna. Che ricorda ai lettori quanto assurda possa essere talvolta la realtà nei vicoli dei Quartieri Spagnoli.

(Luca Crovi, Il Giornale)

Un bel noir molto local ma attraversato da un filo di tensione surreale.

(Monica Ceci, Gioia)

Menna porta alla ribalta un protagonista irresistibile: Tony Perduto, giornalista per vocazione e detective per caso, innamorato di Napoli, della quotidianità paesana dei suoi Quartieri Spagnoli, persino dei misteri del suo sottosuolo. Lo scenario perfetto per una storia che diverte e commuove.

(9colonne)

Indagini, paradossi, dialoghi che sanno di napoletano e – lo ripeto – di napoletanità: sono questi i punti forti del romanzo.

(Gianmaria Tammaro, Linkiesta.it)

Libro che si legge con grandissima scioltezza, sorridendo, crucciandosi, intenerendosi. Sfrecciando per Napoli sul sellino posteriore dello scooter di Tony. O passeggiando con lui, all’alba, nei Quartieri Spagnoli. Alla scoperta di angoli insoliti e storie misteriose, incomprensibili ed inaspettate.

(Barbara Olivieri)

Un’avventura spassosa ma a tinte gialle. Un libro che scorre come acqua. Le espressioni napoletane rendono questa storia misteriosa e divertente. La suspense c’è e si avverte, ma il tutto suscita un sorriso che non si stacca mai dal volto del lettore.

(Salvatore Castano, Wuz.it)

Un delitto fuori dal comune in una Napoli a tinte gialle.

(Marina Indulgenza, ècampania.it)

Un giallo accattivante, romantico, teatrale.

(Elisa Zini, dietrolanotizia.eu)

La narrazione è sciolta e perfettamente cronometrata, ricca di dialoghi, specie nella prima parte, dove prevale la vivacità del carosello popolare che fa da contorno alla vicenda.

(Anna Petrazzuolo, la Repubblica)

Un inizio folgorante, con una situazione surreale che accade in un luogo che fa del surreale la propria quotidianità. Un vicolo dove la vita ha un ritmo, un colore e un suono e soprattutto un silenzio particolare, diverso da ogni altro.

(Cristina Aicardi, Milano nera)

L’amara e involontaria ironia di Tony Perduto, giornalista e investigatore, che si fa sintesi di una moderna napoletanità nella scrittura serrata di Antonio Menna.

(Geppina Landolfo, Roma)

Spira, nel Mistero dell’orso marsicano, la lezione americana che Calvino non ha elaborato. Si avvicina alla leggerezza? O alla molteplicità? Come definirla? La leggera molteplicità? E’ una squisitezza napoletana…una vocazione talmente nitida, talmente irrefrenabile, all’intreccio, alla concatenazione.

(Bruno Quaranta, La Stampa)

Il romanzo è di piacevolissima lettura, specie nella prima parte, che è anche la più solare e non di rado comica. Più avanti vira sul noir.

(Francesco Durante, Corriere del Mezzogiorno)

Tra suspence e complice ironia, con una scrittura leggera che mima il napoletano parlato…ha ritmo serrato e cadenze noir.

(Santa Di Salvo, Il Mattino)

Il titolo extralarge dà subito il tono surreale, leggero, divertito del romanzo.

(Severino Colombo, Corriere della Sera)

Menna ha tratteggiato personaggi strutturati, che vediamo balzare dalle pagine perchè ciascuno di loro ci ricorda qualcuno.

(Daniela Spadaro, Il mediterraneo news)

È un libro di assoluto valore, di alto livello, scritto benissimo e che dice di napoli e dei napoletani in una ironia a volte nostalgica a volte anche snob ma che è l’unico modo per salvarsi da questa città, molto più di tanti convegni e di tanti professorini un tanto al chilo che firmano sgonfi editoriali.

(Giampaolo Longo)

O’ meglio romanzo che ho letto (divorato in realtà) negli ultimi mesi.

(Pino Bruno)

In un modo completamente diverso ma allo stesso tempo simile, Menna porta avanti con Il mistero dell’orso lo stesso discorso dell’articolo su Jobs che lo ha reso famoso. Perché dietro all’ironia costante c’è una riflessione amara su vari strati della realtà di oggi, sia napoletana – in quello che riguarda la connivenza e la convivenza con la camorra – sia più in generale italiana nelle difficoltà quotidiane del lavoro che manca, della perenne necessità di inventarsi e arrangiarsi.

(Francesco Vannutelli, flaneri.com)

Letto tutto d’un fiato perché intriga e diverte mantenendo sempre alta l’attenzione, in una Napoli ricca di fascino, piena di contraddizioni ma unica!

(Roberta Penta)

Ecco il modo ideale per parlare del contemporaneo e delle rogne che affliggono i giovani a caccia ma che dico di un lavoro, di uno straccio di futuro (pure sentimentale) condendo il tutto con una buona dose di suspense e tante tante risate.

(Chiara Beretta Mazzotta, Radio 105)

Era da un po’ che una lettura non mi prendeva così, che non provavo la piacevole ansia di scoprire “come va a finire”, che sopraggiungeva quel misto di piacere e malinconia nel leggere l’ultima pagina, l’ultima parola, nel chiudere un libro.

(Rosario Spanò)

Un romanzo avvincente, intrigante e ricco di dettagli che realmente hanno acceso in me il desiderio di passeggiare liberamente ai quartieri.

(Carlo Albanese)

L’orso in libreria

5928473_322442E’, finalmente, in libreria il mio nuovo romanzo. Dico finalmente perché è stata, per me, una lunga attesa. Lo pubblica Guanda.

Come sempre succede con un libro, quando esce non è più tuo. Appartiene, da oggi, a chi vorrà leggerlo. Non ho molto da dire che non sia stato detto nel romanzo.

Qui c’è una scheda che riepiloga contenuto e genere, qui una intervista in cui dico due cose su com’è nato.

Spero vi piaccia e che vogliate commentarlo con me su questo blog.

Desistere

Volevo scrivere una cosa su Napoli piena di turisti e ingessata da capo a piedi, da Palazzo reale al San Carlo, con decine di impalcature dove non si lavora, come fossero gessi per le fratture che guariscono da sole; su Napoli piena di turisti che passeggiano tra 200 chiese chiuse e strade sporche e caotiche; su Napoli dove si muore in casa uccisi da un oggetto misterioso che si chiama proiettile vagante; piena di turisti che, nonostante tutto, con gli occhi rapiti dalla magia, si infilano nei Quartieri Spagnoli e io che vorrei dire ai motorini che gli ronzano intorno, abbiatene cura, siate educati; e poi parlare ai salumieri, ai macellai, ai fruttivendoli, ai ristoratori, ai pizzaioli, per dirgli trattateli bene, fateli mangiare con abbondanza, fategli un regalo, un conto onesto, siate professionali, puliti, seri, all’altezza della situazione; e ditela una parola in inglese, ogni tanto, che quando vado all’estero, fosse anche la Lituania, lo parlano tutti, pure i tassisti; volevo scrivere una cosa su questa Napoli che fa il pienone di turisti a Capodanno, e gli offre Gigi D’Alessio nella città di Lenòr Fonseca e Roberto De Simone e Raffaele Viviani e Pino Daniele, poi mi sono detto “ma che parlo a fare sempre delle stesse cose?” e ho desistito.

Gli schiaffi di Napoli

Lo so, la mia città è piena di buchi. Non le voragini sull’asfalto. Anche quelle. Ma no, dico buchi. Napoli ne è piena. Ha buchi nei palazzi graffiati dall’incuria. Ha buchi nel centro storico decadente. Ha buchi nelle periferie selvatiche. Ha buchi nelle budella putrescenti di alcuni quartieri popolari dove la legge è quella costruita giorno per giorno tra sopraffazione e veniamoci incontro. Ha buchi nella sceneggiatura rancida che ci vuole tutti allegri, simpatici, canterini, mangioni, abili gesticolatori, simpaticissimi pezzi di merda.

Lo so, la mia città se ne cade a pezzi. Cadono i palazzi scuri, cadono i monumenti storici, cadono i marciapiedi, cadono le saittelle, cadono gli alberi, e a volte pure i pali della luce.

Lo so, nella mia città tutto funziona un po’ e quasi niente funziona del tutto. I pullman passano o non passano, come esce il sole o si nasconde in una giornata variabile. Gli uffici pubblici sommano al burocretinismo italiano, il burofatalismo del mediterraneo, e certe volte uscirne vivi è già qualcosa.

Lo so. La strada pubblica è sempre un po’ privata, e non c’è proprietà privata che non sia anche un poco di tutti. La spazzatura, poi. E un poco di delinquenza. La disoccupazione. La contraffazione. Il contrabbando. La maleducazione. I rumori, l’arroganza, la carta sporca.

Lo so.

Ma ci sono giorni, in certi suoi angoli distratti, che questa città ti prende a schiaffi in faccia, come un medico spiccio con una paziente svenevole. Oggi, per esempio, che c’era un sole ragazzino, e l’aria di festa, sono sceso alla Gaiola.

Dal Parco Virgiliano, sulla testa di Posillipo, ho attraversato a piedi un sentiero di 6-700 metri, su una discesa di pietra e arbusti, e sono spuntato, come in un film di avventura, direttamente su una decina di molliche di roccia levigata dal vento, appoggiate su un mare freddo e brillante, come una specie di collier su un collo bianco. Mi sono steso al sole. Napoli stava tutta sulla mia testa e l’ho sentita, da là, come la mia corona del re.

Perchè è tutto quello che è ma questa città, come le femmine che sanno amare, ti fa sovrano all’improvviso e ti dice tiè, strunzo, io sto qua.

Sei tu che non mi sai guardare.

La grande permalosa

Se fossimo così solerti nel prenderci cura di Napoli come lo siamo nell’offenderci su Napoli, vivremmo sì nella città più bella del mondo. Invece balliamo i nostri giorni sulla ferita aperta, e lo sfregio siamo noi, i parassiti della bellezza, i deturpatori.
I grandi permalosi.

Tempo fa il ballerino Roberto Bolle, passando accanto al teatro San Carlo, vedendo una sequenza di senzatetto accamparsi sotto le volte di quei cento metri meravigliosi che corrono tra piazza del Plebiscito e il Maschio Angioino, lungo la camminatura della Galleria Umberto da un lato, e dei giardini di Palazzo reale dall’altro, cinquettò su twitter, tra lo sconfortato e l’istintivo, una cosa tipo “che schifo”.

Fu preso d’assalto.

Dovette precisare che non gli facevano schifo i barboni ma il degrado nel quale erano ridotti; che il suo disappunto non era quella povertà in cerca di riparo ma che la città non trovasse altro rimedio che lasciarli selvaggi alla ricerca di un angolo improvvisato nel suo cuore antico e stanco.

Apriti cielo.

La pezza peggiore del buco. Allora ce l’hai con Napoli? Allora ti fa schifo Napoli? Perchè a Milano i barboni non ci stanno? Stanno ovunque, i barboni. Non ti presentare più a Napoli, fai così. Vattene nel mondo, va’. Il povero Bolle dovette precisare la precisazione e dire che no, Napoli, non gli faceva schifo. Affatto, è la città più bella del mondo. Ce l’aveva coi politici. Ahhhhhh, adesso sì. Coi politici sì, te la puoi pigliare. Tutto sistemato. Pace fatta. Bolle vuole bene a Napoli. E Napoli vuole bene a chi vuole bene a Napoli.
Tu vuoi bene a Napoli?

Allo stadio San Paolo, qualche giorno fa, un telecronista vedendo che, con il temporale, i locali si allagavano disse “adesso arrivano pure i topi”. Dio mio! I topi a Napoli? Ma tu ci vuoi offendere? Tu stai dicendo che Napoli è una città di topi? Guarda che i topi ci stanno pure a Milano, pure a Torino. Per non parlare delle zoccole. Il povero telecronista dovette precisare che si riferiva al livello dell’acqua, al fatto che potevano uscire pantegane dalle fogne. Ma non voleva offendere Napoli.

Troppo tardi, Napoli si è già offesa.

L’altro giorno un esperto triestino (dottorato di ricerca in Scienza, tecnologia ed economia nell’industria del caffè presso l’Università di Trieste) anticipando il contenuto di una puntata di Report, ha reso noto una sua indagine sul caffè a Napoli. Della serie, andiamo a vedere se è proprio vero quello che si dice. Si è fatto servire il caffè nella città della tazzulella e gli ha dato i voti. Quello del Gambrinus ha preso tre e mezzo: “E’ molto amaro, poco dolce. Non è acido, è astringente. Sento noce, paglia, sentori leggeri di terra.” Questa la valutazione. Poi è andato in un altro posto. “Caffè rancido, legnoso e terroso”. Voto, due.

Santo cielo.

Ma come si permette questo triestino di venirci a dire che ‘o cafè ‘e Napule non è buono? Tu che sei abituato a bere acquette calde, vieni nella città del sole a dire che il caffè è una ciofeca? Ci volessi dare lezioni pure sulla pizza, che dici? Sto mezzo italiano. E’ pure biondo.

“Io degusto tecnicamente e valuto quello che sento in bocca”, ha provato a difendersi l’esperto. Macchè. Non ti devi permettere, hai capito? Eduardo, il cuppetiello, la macchinetta napoletana, il bar mexico, il caffè sospeso, la magia dell’acqua, la miscela Passalacqua, ah che bello cafè, e adesso vieni tu da Trieste e ci vuoi dare lezioni? La Confcommercio di Napoli annuncia che si costituirà parte civile se qualche bar dovesse fare causa, i bar a loro volta annunciano che “non si servono caffè ai triestini”; sollevazione popolare, aria da crociata. Il solito nord contro la povera Napoli. E se qualche napoletano cerca di stemperare i toni, magari dicendo che il caffè del Gambrinus effettivamente sa di bruciato, è la fine del mondo.

Traditore! Vattene da Napoli!

Intanto, il povero esperto triestino ci riprova: “è la mia opinione, nessun attacco alla città”. Sul suo blog dice pure che andando via da Napoli ha mangiato la sfogliatella più buona mai assaggiata in vita sua e che la vista del Vesuvio col mare è magnifica. Uomo ingenuo. Napoli si è già offesa. E’ inutile che corri ai ripari.
Tu non vuoi bene a Napoli, triestino. Vattene, va’. E non tornare più.

Ora, io non ho elementi per dire se l’esperto di caffè abbia ragione o no, e in ogni caso non mi sembra una questione epocale. Chi se ne frega, direi. E direbbero in qualunque città del mondo. Oltretutto, bevo poco caffè e – orrore – mi piace quello americano. Lunghissimo e fumante, la ciofeca, perchè mi fa compagnia. Adoro starbucks, figuriamoci. Quel silenzio, quella comodità, quello stile. Quella maniera di stare in pace a leggere un libro in un salotto silenzioso senza nessuno che ti dica “desidera altro?”, o qualcuno che ti porti il conto senza che glielo abbia chiesto. Non capisco niente, insomma, di bar all’italiana, di espressi al banco, eccetera.

Quello che invece ho capito da tempo, e che si manifesta in tutta la sua ottusità anche con la disfida del caffè, è che a Napoli viviamo in uno stato di profonda e radicata immaturità, che si coniuga sempre nelle persone con la suprema suscettibilità.

Gridare al tradimento, o al complotto, ogni volta che si fa una critica, o si solleva un problema, o si indica una questione, o si emette un lamento, sia esso aspro o ironico, diretto o indiretto, minimo o massimo, che riguardi il degrado delle strade o la qualità di un alimento, il traffico o la spazzatura, la delinquenza o le truffe, l’acqua o il caffè, è il segno che siamo una città bambina, con la faccia, però, di una vecchia permalosa.

Una città che fugge dallo specchio perchè non vuole sapere la verità. E guai a dirgliela. Se lo fai, tradisci. Perchè non vuoi bene a Napoli.

Vattene, va’.

Con la testa nel cassonetto

C’è stato un momento in cui ho pensato di fotografarli e pubblicarli in sequenza, giorno per giorno, in una cartella unica sul web, in modo da costruire un numeratore, tipo quelli del telethon o del debito pubblico. Una carrellata di corpi mozzi. Poi mi sono detto no. Un pensiero laterale mi ha bloccato. Forse è mala coscienza perchè io, per loro, non ho mai fatto niente.

Parlo della gente che ogni giorno vedo con la testa nel cassonetto della monnezza. Ne conto quattro o cinque ogni mattina, perchè lo fanno di giorno, quando i bidoni non sono stracolmi e cercare dentro è più semplice. E poi perchè lì non vogliono maglie usate, pezzi di ferro, radio dismesse da cui ricavare un circuito da vendere, rame, oggetti da rigattiere. Cercano cibo.

Ho visto ieri a Roma una signora anziana recuperare quattro mele e mettersele in un carrellino, come quelli della spesa. Cercano gli avanzi, soprattutto dei negozi. Le pasticcerie, le salumerie, le rosticcerie, i fruttivendoli buttano le cose irrecuperabili spesso la mattina, quando aprono, e devono fare spazio alla nuova merce. Ripuliscono frigoriferi e scaffali, a volte senza cura per l’obbligo di buttare la monnezza la sera. Se la possono mai tenere tutto il giorno nel locale? Non hanno spazio. Così la vanno a chiudere abusivamente nei cassonetti. Ortaggi, pane, polli arrosto, teglie di pasta e di pizza. Immancabile, arriva qualcuno che lo sa e  si cala.

Io, in genere, li vedo chini dal bacino alle gambe, me ne accorgo tardi e ho sempre paura che ci finiscano dentro.

Quanti anziani, e vedo mia nonna, mio nonno, vedo me stesso. Gli vorrei dire attento al femore, cazzo. Alla tua età è fragile, si spezza come niente. Fai attenzione, vorrei urlargli. Ma sarebbe ridicolo.

Le statistiche dicono che la povertà è in crescita. Circa cinque milioni di persone, pare. Non lo so, ogni giorno un numero diverso, forse sono di più, o di meno. Ma sono tanti. Io li vedo, e c’è stato un momento in cui volevo costruirci una galleria fotografica.

Vedo il vecchio nel cassonetto, vedo il vecchio che chiede l’elemosina con eleganza e buona educazione, vedo il vecchio che infila il dito nella fessura dei soldi spicci delle macchinette automatiche, o che raccoglie cicche. Li guardo e penso che potremmo finirci tutti.

Questa – diciamoci la verità – è la vera angoscia. Non la sua condizione ma la nostra.

La povertà è sempre esistita. Chi chiedeva la carità, chi mangiava alle mense, chi non aveva da vivere. C’è sempre stato anche chi provava ad aiutarli e chi tirava dritto. Cos’è cambiato, allora? Il numero. Ma non solo. La tipologia, soprattutto. Sono morte un paio di idee che ci davano sicurezza: hai un lavoro, te la cavi; hai voglia di lavorare, te la caverai sempre.

Questa certezza non c’è più. Non è la povertà che stringe lo stomaco; è il respiro mozzo sul futuro di ciascuno di noi. Non riusciamo più a tirare nei polmoni tutta l’aria che c’è nella vita.

Quando quei corpi si issano, come cani randagi, con una mela, un pezzo di pane raffermo, un cavolfiore moscio, e ti mostrano il volto, non ci leggi i segni del vagabondaggio. Hanno la faccia sbarbata, la maglia pulita, le unghie curate. Hanno volti lavati col sapone, e hanno dormito nel loro letto.

Sono fuori dalle categorie classiche della povertà, che in fondo ci rassicurano. E’ un tossico, è un alcolista, è un malato mentale. Che belle e utili definizioni. Ci sono servite per contenere la paura, per dirci che ognuno della propria vita fa quello che vuole, e se sei ridotto a scavare nella monnezza è un po’ anche colpa tua.

Ora non è più così.

Il volto lavato di sapone della vecchia che si tira su dal cassonetto ti dice che oggi tocca a lei, e domani potrebbe toccare a tua mamma. Questa cosa è insopportabile.

Ogni mattina, quando vedo queste persone, rimango a fissarle attonito e angosciato. Non so cosa fare. Potrei aiutarle. Ma non faccio niente. Mi sembra che niente io possa fare. Le guardo.

L’ultima volta che ne ho visto uno ho stretto in tasca sei euro in monete. Li ho contati con le dita, toccandole, senza vederle. Ma non per darglieli. Per sentire se ce li avevo ancora, e poi dirmi cazzo, meno male.

Perchè sotto tutto il buonismo, come la crosta, c’è l’egoismo. Non tocca ancora a me, meno male. Poi ho chiamato mia mamma. Tutto a posto? Tutto a posto. Anche papà sta bene. Ma fino a quando?

E io, fino a quando?

Spero solo che se dovessi finire, un giorno, a corpo mozzo in un cassonetto per cercare cibo, a nessuno salti in mente di fotografarmi.

E’ questo il mio pensiero laterale, la mia vergogna.

E che, magari, invece di restare lì immobile come un coglione a guardarmi, o a pensare meno male che non tocca a me, mi venga a dare una mano, che piegarsi in un cassonetto è dura davvero, soprattutto ad una certa età, quando hai le mani pulite, e il cuore senza rezza.

La dittatura del fesso

Parlo con un importante produttore cinematografico e mi dice: “la gente vuole la commedia, e un poco di sentimento, commedia e sentimento, cose semplici, ormai qua si finanziano solo le commedie, la gente vuole ridere, svagarsi; non puoi farla venire al cinema, farle pagare un biglietto, e poi tenerla due ore coi pipponi sulla vita. Commedia, oppure, se sei americano, action, ma lo devi fare coi controcazzi, cioè coi soldi. Da noi si aspettano la commedia, e noi quella finanziamo“.

Poi parlo con un importante regista che mi dice: “io devo fare commedie, lo vedi quello che c’è in giro? I distributori vogliono commedie, gli esercenti vogliono commedie. Gli italiani devono fare solo commedie, ormai; io, per lavorare, le faccio ma provo a infilarci qualcosa di mio, una cifra personale. Insomma, cerco di non perdere la dignità. Che devo fare?“.

Parlo con un uomo di televisione che mi dice: “ti devi tenere basso, basso di scrittura, basso di ambizione. La letteratura lasciala a Foscolo. Ricordati che su dieci persone, otto non capiscono un cazzo. E i due che capiscono qualcosa, la televisione non la guardano“.

Parlo con uno sceneggiatore televisivo che mi dice: “facile facile, i personaggi devono parlare facile facile, come in mezzo alla strada, battute semplici, la gente non si deve scervellare, devi dire qualcosa al primo e all’ultimo“.

Parlo con un noto editore e mi fa: “storia avvincente, ritmo, plot, della lingua che ce ne fotte. I libri che vendono meno? Quelli complicati, quelli che li capisce solo chi li ha scritti. E nemmeno. I libri che vendono di più? Quelli facili, quelli che capiscono tutti. Vuoi vendere? Parla a tutti. Una bella storia, una bella trama, e parla a tutti. Tanto se lavori sulla lingua, sulla struttura, se ti contorci, non vendi un cazzo e comunque la critica ti fa a pezzi perchè quella è un’arena di sangue, ognuno ce l’ha più lungo dell’altro, poi ce l’hanno tutti piccolo perciò stanno pieni di tic. Ma tu li hai visti?“.

Parlo col proprietario di una radio e mi dice: “la senti la musica? Tutta uguale. Così dobbiamo essere nel parlato, nei testi, tutti uguali. Veloci, facili, comprensibili, e tutti uguali. Così la gente non si disorienta“.

Parlo col direttore di un giornale on line e mi dice: “molti clic, molte condivisioni, molti like, molta pubblicità, molti soldi, questo è. Sai come si fanno i clic? Piacendo alla gente. Devi piacere, devi scrivere quello che piace alla gente. La gente vuole il populismo? Dagli il populismo. La gente vuole la demagogia? Dagli la demagogia. La gente vuole la lacrimuccia? Falla commuovere. La gente vuole sognare? Falla sognare. La gente sta incazzata? Fomentala. La gente ce l’ha coi politici? Insultali.  Questo è“.

Questo è, quindi. Bisogna semplificarsi, rendersi digeribili, leggeri, non pesare sullo stomaco, non appendersi al groppo, sciogliere i nodi, lisciare il pelo, sorridere, assecondare, dire sì.

Il pubblico ha sempre ragione, e al pubblico bisogna obbedire. E’ la vecchia legge del commercio. Ma se il pubblico abbassa i suoi standard fino al sottoscala, se si disabitua cronicamente a ragionare, se rifugge dal senso critico, se non tollera la spina, se non accende la luce nella pancia, chi gli dice che sta sbagliando tutto, che sta andando a fondo, che così non si salva ma muore prima?

Non sto qui a riproporre vecchi discorsi sulla cultura alta e la cultura bassa, su chi guida e chi è guidato. Sono contrapposizioni ammuffite.

Ho sempre detestato la spocchia dell’intellettualismo che si faceva oscuro pensando che nella sua indecifrabilità, o nel sofferto, in quel patire pallido la vita, ci fosse profondità; ho sempre guardato con un filo di pietà a chi, per esempio, non vendendo una copia, o non trovando un editore, diceva “eh, non passo perchè alla gente piacciono le cazzate”; ho sempre detestato le contorsioni sterili su struttura, lingua, trama, discorso e discorsi al punto da avvitarsi in una crema rancida che nessuno, nemmeno chi la preparava, riusciva, in fondo, ad assaggiare.

Ho sempre amato – per contro – gli autori bastardi,e le lingue bastarde, le storie bastarde, che si impastavano nel fango della vita comune, della lingua di tutti, che diventavano semplici, aprendo tutte le porte, ma rimanendo al fondo indigesti, selvatici, fastidiosi, e bastardi proprio per questo: ti entravano nella vita suadenti, inoffensivi, e ti lasciavano però cambiato, che quella risata che ti aveva conquistato, poi diventava smorfia, senza che te ne accorgevi.

Ho sempre negato, quindi, qualunque superiorità alla cultura “alta” e qualunque “bassità” alla cultura “bassa”. Il ragionamento che faccio adesso non riguarda la contrapposizione tra semplice e complesso, ma quella – più seria – tra l’avere qualcosa da dire e il dire sempre la stessa cosa.

Mi chiedo, oggi, quanto spazio ci sia, nel cinema, nella tv, in radio, nell’editoria, nel giornalismo on line (quello stampato non esiste più), perfino nella politica, per dire qualcosa di originale, di diverso, per dirlo bene e dirlo facile – sia chiaro -ma dirlo per aprire porte nuove, per lisciare un po’ il verso del pelo, un po’ contro, per dare a questa società molle, mentre gli fai la barba, qualche taglietto che rigenera, che sputa il sangue marcio.

La mia sensazione è che si stia nefastamente riducendo il senso critico generale, e il coraggio.

I soldi, che poi sono il motore di qualunque azione creativa quando vuole rendersi ampia e pubblica, vogliono altri soldi, e nel cercare questa moltiplicazione del denaro da altro denaro, si insegue allo spasimo, a perdifiato, senza riserve, senza mascheramenti, senza nemmeno più fare finta che, il fesso. Pensando che il fesso, alla fine, faccia soldi, mentre – com’è evidente – non sei mai abbastanza fesso per fare abbastanza soldi da giustificare la tua discesa laggiù, ed è discesa inarrestabile, senza freni. L’abisso della fessità. A me questo ha sempre fatto paura.

Non la dittatura in sé, ma la dittatura del fesso.

Un Forum nell’acqua

Mi ha riempito di tristezza, oggi, leggere sui giornali napoletani le parole di Roberto De Simone. Una malinconia cupa, senza ossigeno. Come un cappio alla gola. Come certe giornate che per davvero, qui, sembrano quelle di un topo in un malefico esperimento di laboratorio: quelle gabbie con cento porte che non sboccano da nessuna parte.

Porte che non aprono.

Il maestro, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, considera Napoli una città morta, disperata e disperante, e vivere qui un salto in un buco nero.

«Fossi più giovane me ne andrei – dice-. Questo è un invito che faccio anche ai quarantenni. Perché se non sei figlio di buona famiglia, anche se specializzato, bravo, con molte buone intenzioni, non accedi a niente.»

Mi ha bastonato duro, non perchè io non sapessi, o sentissi già tutto questo. O non lo abbia già detto, con tante parole, forse pure troppe.

Ma perchè, in fondo, che lo dica io conta poco, perfino per me, che sono sempre scontento, e ormai abituato al mio malumore. Ma se lo dice lui, e se lo dice chiunque altro da me, io sento come un’eco maledetta, un rimbombo insopportabile, un frastuono che punge.

De Simone dice che la cultura a Napoli “ruota attorno a clientele, interessi di coalizione e di partito, sia di destra che di sinistra”. E che tutto è confuso, molto inquinato, e ha solo una funzione ludica.

E’ un po’ il subdolo trucco, che mi sono trovato spesso di fronte, della cantata bellezza di Napoli, o della celebrata simpatia della gente, o le grandi questioni come la densità, la conformazione urbanistica, la complessità: carte segrete che tirano fuori gli struzzi quando qualcuno parla dell’infinito degrado da cui siamo assediati, che va coperto, nascosto sotto una coltre di omertà, e mai risolto.

Degrado umano, si intende, perchè è tutto da lì che parte.

Tra qualche giorno comincia a Napoli il Forum Universale delle Culture. Alzi la mano chi lo sa. Nasce a Barcellona come evento culturale internazionale dell’Unesco nel 2004. Muore a Napoli come fiera del torrone.

A Barcellona durò 141 giorni, coinvolse 3 milioni di persone, creò una zona (Recinte Forum) da allora recuperata e viva. A Monterrey, nella seconda edizione, il palcoscenico fu un sito industriale siderurgico dismesso, che divenne Parco urbano su conoscenza, diversità, pace. A Valparaiso, in Cile, durò 45 giorni, e divenne il progetto per la cultura come luogo della lotta alla povertà.

E Napoli? Cosa succederà a Napoli?

Boh.

Magari si monta un maxischermo sul lungomare e ci vediamo i film di Totò in bianco e nero.

Il progetto presentato nel 2007, quando fu scelta Napoli, parlava di cinque mesi di eventi, riflessioni, lavoro comune sul tema delle radici e del futuro. Si parlava di quattro milioni di presenze previste, da tutto il mondo. Poteva essere la grande occasione per costruire un raduno di menti vive, che pure resistono a Napoli. Conosco personalmente decine di scrittori veri, di ogni fattura, molto diversi tra loro, ciascuno con una sua lingua, con un suo segmento di scandaglio, con una sua capacità espressiva, talenti che trovano spazio sulla scena nazionale, che hanno voce, operai dell’immaginazione, oppure ingegneri, ma intellettuali fervidi, autori, giornalisti, artisti – tutti molto tesi, scontenti – che lavorano ognuno per sé, con una certa diffidenza, a volte in competizione, altre volte fanno rete ma solo per grumi occasionali, e mai per insiemi, mai in un sistema.

Questo sistema poteva essere il Forum delle Culture.

Manca un mese, ormai, e la città freme di pioggia e di calcio. Stasera parte il campionato. C’è Higuain al San Paolo. Del Forum nessuno sa nulla. Ed è forse giusto così.  Un forum nell’acqua. Le cose hanno un senso, e a Napoli, oggi, parlare di cultura non può che essere questo. Una città che si nutre di polveri, di pidocchi.

“Vi scongiuro di scandalizzarvi”, dice il maestro De Simone citando Brecht, e invita al pensiero critico, al dissenso, alla rottura per creare il nuovo. Anche qui sento il mio pensiero rimbombare, esplodere nel timpano. Altro che parlare del positivo, o minimizzare i problemi, o la tiritera sul fatto che poi tutto il mondo è paese.

«Gli intellettuali tacciono – dice De Simone -, la piccola e media borghesia è muta. Regna il silenzio in una città dove è impossibile vivere culturalmente».

Ecco, questo è l’unico punto di dissenso. Io sento molti rumori, maestro, e penso che il silenzio sarebbe già una conquista. Non è muto, il popolo di questa città. Parla tanto, e spesso a vuoto. E’ pieno di dotti e inutili pensieri individuali, di aspre contese nulle, di combattimenti a salve, di maleparole benvestite, di ragnatele rancide su lingue asciutte, di propaganda vacua, di un sentimento enorme di sé, ciascuno per sé.

Io vedo un circo. Di quelli antichi. Un’arena di gladiatori flaccidi, senza addominali.  E la cosa più triste che pure il pensiero critico, ormai, mi sembra farne parte, al punto che, nel mio piccolo, mi scoccio pure di scriverne.

Lo faccio con stanchezza. Ma che parlamm’a fa?

La sensazione è che De Simone, come Gerardo Marotta, come Aldo Masullo, ormai vengano chiamati, incolpevoli, a recitare il controcanto scontato, l’intervista lamentosa, l’immancabile nota stonata, la cultura mortificata. Facciamo parlare un rompicoglioni, che montiamo una pagina critica, l’alito un po’stantio, il vecchio, il saggio, l’eterno fujetevenne. Il rito stanco perfino della critica. La voce nera che viene macerata e merdizzata, anche lei, insieme a tutte le altre, come un vibrione innocuo. L’intestino attivissimo di questa città digerisce tutto. I dolci e le pietre, senza nemmeno una gastrite.

Siamo tutti attori della stessa commedia. Anche lei, maestro.

Ma che parlamm’a fa?

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