Me ne vado, mi cancello, e poi torno con la coda tra le gambe

Può sembrare esagerato ma a me i social network hanno fatto venire un mezzo esaurimento nervoso. E pure a voi, anche se non lo sapete.

Ci sono entrato con entusiasmo. Aprire la finestra e dare una occhiata ad amici lontani, parenti perduti e ritrovati, conoscenti che si palesavano e prendevano forma, sconosciuti che, lentamente, ti entravano nella vita, simpatie improvvise, inattese. Condivisioni di passioni, di gioco, serate a dire cazzate innocue, o goliardiche, chiacchierare restando fermi.

Poi è successo qualcosa.

Sarà stata la folla allargata, la massa indistinta che è arrivata, ma è nato uno stream informe, un flusso continuo di parole. Un concetto e il suo contrario, maree di rancore che si alzano e si abbassano e arrivano a tradimento addosso, lasciandoti per lo più compresso tra la voglia di replicare e una noia mortale.

Cose del passato, magari una sera che pensavi al futuro.

Prolissità, mediocrità, medietà.

La politica, la cultura, la visione del mondo.

I complotti, la Casta, le pensioni di Giuliano Amato.

Ognuno che dice la sua e tu costretto a leggere. E’ come se si fossero aperte troppe porte, e fosse arrivata troppa gente, e il rumore di fondo dell’umanità, che a volte è piacevole, fosse diventato assordante.

E’ come se il brusìo leggero che arriva dalla finestra aperta, e ti fa compagnia come una brezza, fosse diventato il caos di una folla che urla ventiquattro ore su ventiquattro.

Un allarme sempre acceso.

Un sottotitolo infinito, per lo più di cazzate, che, poco a poco, ha seccato le pareti della mia immaginazione, mi ha sgonfiato le illusioni sulla gente, mi ha prodotto un continuo mal di testa e un senso costante di rabbia verso gli altri.

Oggi sento il bisogno di tornare a prima.

A quando potevo tenere la tristezza degli altri fuori, e magari lasciare ad una serata la capacità di abbracciarmi lentamente, dimenticando il mondo, che a volte se ne ha bisogno.

A quando sapevo di avere, come tutti, qualche detrattore livido per invidie o rancori personali ma potevo ignorarlo perchè lui stava lì, e io stavo qui, ed ero protetto da qualunque schizzo.

A quando, conoscendo qualcuno di persona, avevo voglia di scoprirne piano i lati più veri della sua vita, non come adesso che magari so già dove ha fatto la spesa il giorno prima, e quando compie gli anni (e che torta ha mangiato domenica scorsa).

A quando gli amici erano davvero pochi, ed erano buoni amici, erano amici a cui potevo dire le cose più mie, e i conoscenti erano tanti, ed erano innocui, li sapevo “di faccia”; a quando la confidenza era una conquista lenta, mica un diritto.

A quando sceglievo io con chi discutere di cosa, e con chi invece scambiare solo parole di circostanze perchè non valeva la pena.

E poi c’è il tuo anziano fruttivendolo che ti chiede l’amicizia, e tu lo tieni lì sospeso.

“Perchè non accetti la mia amicizia su facebook?”.

“Ah, mi hai chiesto l’amicizia? Non me ne ero accorto, sai, ci vado poco ultimamente”.

E dopo che l’hai accettata, con lui che commenta solo in maiuscolo perchè non ci vede bene, poi gli devi pure rispondere.

“Non rispondi mai ai miei commenti. Ma poi perché ti lamenti sempre? Non ti facevo così pessimista”.

Poi, ovviamente, lo dice a tuo padre. “Ma vostro figlio sta sempre così pessimista, che succede?” E tuo padre, sbigottito, che ti rimprovera che sei sempre pessimista, “ma che ti succede?”.

Niente, non mi succede niente.

Perchè devo spiegare il mio pessimismo al mio vecchio fruttivendolo, e poi a mio padre che parla col fruttivendolo del mio pessimismo?

Siete voi il mio pessimismo!

Lo so, lo so, che i social hanno strumenti di gestione, e che possono essere usati senza farti usare.  Lo so che puoi ignorare, bannare, cancellare, uscire, camminare, spegnere, e poi tornare, che puoi selezionare, che puoi usare poco, che puoi chiudere e poi accendere quando ti pare.

Ma è un potere solo apparente. Come quando hai in mano il telecomando e pensi di gestire tu il televisore perchè poi cambi canale, o chiudi.

In realtà i canali quelli sono, e la tv non la spegni perchè c’è un risucchio ipnotico, un condizionamento psicologico, che ci tiene tutti lì a fare le stesse cose nello stesso momento.

Lo so, lo so, è un lamento ridicolo. Oltretutto sono qui a lamentarmi di qui.  Nessuno mi obbliga, nessuno mi costringe. Posso non esserci, posso andare via, posso cancellarmi, posso selezionare i contenuti, posso stare zitto, posso parlare, posso fare quello che mi pare.

Me ne posso pure andare, se non mi sta bene.

E quasi quasi, così faccio. Che poi lo dicono tutti, ad un certo punto. Me ne vado, mi cancello, e poi tornano con la coda tra le gambe.

Io, però, questo flusso perpetuo di umanità non lo tollero quasi più.

Forse torno ai miei anni Novanta. Quando la vita, là fuori, mi sembrava bella perché stavo leggendo un libro bello. Quando le persone con cui parlare me le sceglievo una per una. Quando un’emozione durava, e al fruttivendolo bastava sorridere mentre mi fotteva cento grammi sulla bilancia truccata (TI HO SEMPRE SGAMATO, CRETINO).

(comunque se mi dovessi cancellare veramente ho skype sempre acceso, il mio contatto è antomenna; la mia mail è antoniomenna@gmail.com; se mi scrivete vi do pure il cellulare; e poi ho questo blog; insomma, vabbè, ci siamo capiti).

Una minuscola pietra nel fango

grammaticaebookSei giorni fa è uscito il mio nuovo libro. Ne ho parlato nel post precedente e non ho molto da aggiungere. Ci sono tre personaggi, molte cose che vedo, quello che sento, ma nulla di tutto questo è più mio.

Quella storia, ormai, è di chi vuole leggerla. Il libro è lì. Io vado per la mia strada, che è già un’altra.

Ma non è di questo che voglio parlare qui. Scrivo per un altro libro, che non è il mio, anche se ci ho messo le mani. E’ un libro nostro.

E’ il libro di Maria Franco, innanzitutto, che mi è parsa amareggiata sul suo blog, e voglio che lavi via la tristezza, perchè lei non se la può permettere.

Io l’ho vista all’opera, in una aula sgarrupata, con il mare nella finestra, sull’isola di Nisida, un carcere minorile. C’era una quindicina di ragazzi molto aggressivi e molto furbi e molto violenti e molto agitati. Uno di questi aveva una pistola tatuata sull’avambraccio e ogni tanto se l’accarezzava. Un altro non parlava mai, e non abbassava gli occhi. Ti fissava annoiato come un leone. Un altro si muoveva molto, e dava al banco e ai muri i pugni che avrebbe voluto dare in faccia a Maria, o alla guardia, o a me.

Perchè una mattina sono entrato anche io -controvoglia e inadeguato – in quella classe, dove Maria insegna da anni a questi detenuti minorenni, che passano qualche ora e rimescolare pensieri, lessico, a tentare di far sparare una penna bic blu, a mangiarne il tappo, e ogni tanto, nella brodaglia irrimediabile, fanno salire a galla una perla, una luce, quella che, in fondo, si cerca.

Una minuscola pietra nel fango.

Ci sono entrato anche io, come ci sono entrati altri otto amici che hanno il vizio di inventare storie. Maria ci ha coinvolto in un progetto di scrittura. Improbabili lezioni, con noi (o almeno io) muti, e attoniti, e lei implacabile. Parlare di libri, e di scrittura, e di narrazioni, e di linguaggi, a una decina di rapinatori o spacciatori o trafficanti quindicenni napoletani.

Provateci.

Alla fine del ciclo di incontri, la stesura finale di un racconto curato dall’autore ma intercalato da frammenti di scrittura dei ragazzi. Racconti (nove) che sono diventati un libro. Nostro, e di Maria innanzitutto. E dei giovanissimi detenuti.

Si chiama “La grammatica di Nisida”. E diciamolo subito: l’incasso va a finanziare per intero le attività culturali nell’Istituto.

Lo si può comprare, dunque, per il valore dei racconti e degli scrittori (c’è gente seria: Viola Ardone, Luigi Romolo Carrino, Daniela de Crescenzo, Maurizio de Giovanni, Alessandro Gallo, Tjuna Notarbartolo, Anna Petrazzuolo, Patrizia Rinaldi) ma anche per dare un contributo economico ad un progetto serio.

Solo che l’acquisto scarseggia, e Maria (e io con lei) ne è amareggiata. Il libro è comprabile via internet, in formato e.book (per chi ha un tablet o un reader) o in formato pdf (per leggerlo semplicemente al pc). Costa poco (circa 6 euro). Si scarica con facilità (basta andare sul sito dell’editore: www.caraco.it) ma pare abbia venduto un numero di copie ridicolo, che rende quasi vano lo sforzo.

Mi ha sorpreso molto saperlo. Ero convinto che l’esiguità del costo, la semplicità dell’acquisto, la qualità del libro e, soprattutto, il valore solidale dell’iniziativa, avrebbero avuto presa.

Mi soprende sempre questa Napoli che ama dipingersi generosa, di cuore, aperta, carnale, solidale, che guarda con disprezzo chi la critica, che invoca le proposte in luogo delle chiacchiere, che se segnali un problemi, ti risponde piccata, e poi quando è il momento, gira la testa dall’altra parte, finge di non sapere, di non capire, finge di non leggere.

Dove sono i filosofi del fare?

Dove sono i savonarola d’accatto?

Saranno lì a lucidare la collezione di figure retoriche. Troppo immersi nella cartolina per vedere che forse potrebbero compiere un piccolo gesto.

Un piccolo gesto anonimo, di quelli dove non compari, dove non ci sono medagliette da appendere al collo.

Un piccolo gesto essenziale, utile e di verità, che costa meno di sei euro, con cui comprare, magari, una scatola di quaderni, o una decine di penne bic da masticare sul tappo negli inverni di Nisida, quando Maria Franco chiederà ancora una volta a quei ragazzi di scrivere un pensiero, un ricordo, una scena.

Perchè che lo compriate o no, questo libro, (e spero ancora che lo facciano in molti) alla fine la certezza è che nel mar mediterraneo della nullafacenza delle anime belle di questa città, Maria Franco, soldi o non soldi, vendite o non vendite, continuerà a lavorare.

Amareggiata ma indomita.

Lasciare o restare? Magari fosse una scelta.

ImmagineSono molti anni che mastico, a bocca amara, la questione del rapporto con le radici. Il legame con il proprio luogo. La rete di affetti. Il desiderio di camminare sulle strade dove sono si è stati bambini, di veder crescere gli amici di infanzia, di battersi per il proprio quartiere, o di sostenere la vecchiaia dei propri genitori.

Vivere nella casa dove ha vissuto tuo padre, e prima ancora tuo nonno.

Prendere l’ombra della grande quercia.

Sento questo tema in prima persona perchè dentro di me è irrisolto. Combatto continuamente tra due tensioni opposte (andare, restare), e non ho mai saputo scegliere (alla fine, scegliendo).

Sia chiaro: non mi unisco all’eterna, e stucchevole, guerra tra chi va e chi rimane. A Napoli, in questo senso, c’è una sfida storica, e ridicola, alimentata da una certa pubblicistica improvvisata.

Chi resta si sente eroe in trincea e accusa chi se ne va di diserzione. Chi se ne va, al contrario, si sente uno buono, con la marcia in più, e accusa chi resta di essere bamboccione, o mediocre.

Io rifiuto questo teatro. Tutte le scelte hanno pari dignità. Ciascuno ha il sacrosanto diritto di andarsi a vivere la vita dove gli pare. Vuoi andare, vai. Vuoi restare, resta. Sono scelte individuali.

Tutto questo , però, vale finchè c’è lo spazio, appunto, per una scelta.

Negli ultimi quindici anni la sceltà non c’è stata quasi più. Andare è un obbligo. Tutto passa per il lavoro, e per la realizzazione di sé. La gente lascia il Sud, parte, anche a malincuore, per lavorare.

Soprattutto a malincuore. Non lo sceglie. Deve farlo.

Dal 1995 al 2008 hanno lasciato il Meridione per il Centro-Nord circa 2 milioni di persone. Di questi, un milione di età compresa tra i venti e i trentanove anni.

Altre 120mila persone lasciano ogni anno l’Italia per l’estero. Il 60 % proviene sempre dal Sud.

In sostanza, ci stiamo svuotando, come Paese, e come Meridione, delle migliori energie.

Alleviamo, facciamo studiare, i nostri giovani, e poi li regaliamo. Li facciamo giocare in un’altra squadra.

Altrove trovano opportunità che qui non hanno. Chance. Riconoscimento.

Il dramma non è solo il loro, che trovano la via, e magari vivono con l’occhio umido della nostalgia, con la fatica di recidere i legami, ma se ne fanno una ragione. Il dramma maggiore è del territorio. Senza le forze migliori, e senza gli strumenti a chi resta, c’è un irrimediabile impoverimento.

Non solo di denaro ma di energie.

È una Spoon River. Non c’è una famiglia che non abbia un figlio o un nipote lontano. Non c’è una famiglia che non pianga questo piccolo lutto. Io credo che questa sia una grande questione sociale del nostro tempo. Come si risolve? Non ho, ovviamente, soluzioni facili, se non quelle che possono nascere dall’analisi sociale, dall’interrogarsi, dall’indagare cause e tirare, quindi fuori, le risposte.

Credo che molto parta dal lavoro, e dallo sviluppo, e dalle opportunità, intersecando il tema del merito, dell’investimento sui giovani. C’è da rovesciare un modello sociale. Il cambiamento non è cosa da salotti, o da iniziative estemporanee, come siamo abituati a fare sull’onda di qualche evento di cronaca.

Non servono le risposte emotive, ci vuole un progetto. Va attivato un meccanismo profondo.

In “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”, con un passo leggero, una piccola narrazione, di una piccola storia paradossale e provocatoria, ho provato a mettere in fila i fattori che bloccano i giovani talenti del Sud: mancato accesso al credito, burocrazia, condizionamenti ambientali, corruzione, camorra.

Si è aperto un dibattito ampio, interessante. Spero che sia servito a dare qualche chiave. Il racconto dei problemi, per chi sa leggerlo, contiene anche le soluzioni, e credo che questo sia il principale contributo che un libro, un lavoro culturale, un giornalista, uno scrittore, possano dare al proprio territorio.

Da martedì 19 marzo sarà in tutte le librerie una mia nuova storia.

Si intitolerà “Tre terroni a zonzo – Lasciare Napoli o restare?”.

Parlerò sempre dei giovani del sud, ma da un’altra angolazione, quella, appunto, della migrazione.

Andare o restare?

Viene pubblicato anche questa volta da Sperling & Kupfer. é un’ideale continuazione del primo libro. Ci sono la stessa ambientazione, lo stesso stile, una lingua semplice, una tonalità lieve per tentare, però, di indagare una questione complessa. I protagonisti, questa volta, sono tre: Ilaria, Michele, e Diego Armando. Si laureano brillantemente, nei tempi giusti, e col massimo dei voti. Ma la sera della festa sale l’ombra della domanda terribile: “e adesso? che si fa?”.

Ilaria e Michele non hanno dubbi. Se ne vanno da Napoli “Qui si muore”, dice Ilaria, “non c’è futuro”. Lei va a Milano, Michele a Londra. Lì trovano lavoro, ma non solo. Diego Armando, forse anche per il nome che porta, vuole restare. Vuole restare a Napoli. Per lui, il cammino sarà più duro. Il libro racconta le storie parallele dei tre, nei primi due anni dopo la laurea. E’ una storia di emozioni, di vita quotidiana. Una narrazione. Ma traccia anche una mappa. Ha una conclusione che apre alla speranza, e dice, in fondo, che la strada per restare c’è.

Ci può essere.

Spero che questo libro, come il precedente, sia accolto con benevolenza e attenzione.

E che possa essere un contributo utile per aprire uno squarcio su una grande questione sociale, e trovare insieme la via per affrontarla.

Due o tre cose da dire

Cinquantamila lettori in tre giorni. Diecimila condivisioni. Trecento commenti. Tremila like sul sito di Fanpage.

Direi che il post “I napoletani non devono viaggiare“, pubblicato sul mio blog tre giorni fa, sia andato a bersaglio.

La stragrande maggioranza di quelli che lo hanno letto hanno capito il senso di quel testo. L’ottanta per cento dei commenti sono stati di identificazione, di sostegno, di conferma.

Questo è confortante.

Dimostra che c’è una larga platea, a Napoli e non solo, stanca del degrado, dei disservizi, dell’arretratezza, dei problemi che allontanano la nostra città dagli standard minimi europei.

Poi ci sono anche le critiche. Non sono state tante, rispetto ai consensi, ma sono significative.

Poichè a me interessa più il senso critico che le cose positive, perchè credo che nella critica e non dalla carezza, si formino consapevolezza e cambiamento, voglio, anche nel caso del mio post, analizzare le critiche, più che gli ampi numeri dell’apprezzamento.

 Che cosa ho trovato nei commenti critici al mio post?

Intanto, un po’ di approssimazione. Alcuni hanno letto solo il titolo, altri nemmeno quello. E hanno commentato. Lo hanno fatto sulla base di altri commenti o di quello che avevano solo intuito.

Questo segnala un grosso problema rispetto al web, e ai dibattiti sulla rete. Il campo si è allargato molto ma l’attenzione si è ristretta. C’è molta superficialità. C’è molta manipolazione. Lo strumento della rete è straordinario per larghezza e apertura. Ma è anche preoccupante per approssimazione e falle.

Bisognerà, dopo la sbornia positiva di questi anni, fare una riflessione critica anche sul web e su questa girandola di anonimi, di manipolatori, di mestatori, di lettori superficiali.

Nella maggior parte delle critiche, però, ho trovato argomentazioni interessanti.

 Un’accusa mossa al mio post è quella dell’ovvietà. “Non si possono paragonare Napoli e Stoccolma”. “C’è troppa differenza di densità, clima, storia, popolazione; è un paragone banale”. “Ha scoperto l’acqua calda, che cosa dice di nuovo?”.

Questa critica mi meraviglia. Il mio è un post semplice, si capisce. Non è un saggio di sociologia, non è un trattato, non è neppure un articolo. E’ una pagina di diario. Un pensiero. Fai un viaggio all’estero, torni, e hai alcune sensazioni. Capita a tutti, però. Alzi la mano chi, tornando da un viaggio, non ha fatto un paragone – nel bene e nel male – tra i luoghi visitati e la propria città.

Anche la scelta di Stoccolma non è “teorica”, è “empirica”. Sono stato lì. La prossima volta, tornando da Madrid o da Istanbul o da Avellino o da Capri, farò un altro tipo di confronto.

 Altra osservazione frequente: “Napoli è una città bellissima. Unica al mondo”.

E quindi? Chi dice il contrario? Chi ha mai detto che non è bella? La bellezza, che peraltro non è merito di nessuno, è oggettiva. Ma basta la bellezza a giustificare, o coprire, il degrado (che invece ha molti colpevoli)?

Basta la bellezza a dire che tutto va bene, che non ci sono problemi?

Per me, no. Anzi, dalla bellezza di Napoli, vedendo come viene trattata, sale una rabbia ancora maggiore. Se fosse brutta, pazienza. Il problema è proprio, invece, che Napoli è una città bella ma ferita e deturpata.

Ma questo non si può dire.

Il mito della bellezza come consolazione di tutti i mali è ancora vivo, evidentemente.

Ancora: “Napoli è allegra, vitale. La gente è di cuore, se stai male si fermano tutti ad aiutarti. A Stoccolma la gente si suicida”

Questo è un ulteriore tassello dell’autoconsolazione. Abbiamo gente di cuore, simpatica, che trasforma tutto in allegria, e questo, insieme alla bellezza dei luoghi, dovrebbe farci chiudere gli occhi sul degrado.

E’ una logica che mi sfugge.

La bellezza di Napoli, e il calore della sua gente, sono dati oggettivi e incontestabili. Per molti il calore popolare è un motivo per amare Napoli. Lo capisco.

Ma possiamo chiudere qui il discorso sulla città? Io credo di no.

Poi: “I problemi di Napoli ci sono ovunque. Solo che di quelli di Napoli si parla, mentre della altre città no. La criminalità c’è anche a Barcellona, l’emergenza rifiuti anche altrove, i disservizi pure”.

Qui siamo, davvero, alla negazione della realtà. Un lettore è arrivato a dire che lui è stato ad Alessandria, e ha trovato lo stesso degrado di Napoli. Mi sembra incredibile.

Abbiamo i morti ammazzati per strada o negli asili, la droga shop in alcuni quartieri alla luce del sole, la camorra che corrode la vita sociale ed economica, interi quartieri nell’abbandono, l’illegalità diffusa, abusivismi di ogni genere, il mare inquinato, i monumenti sfregiati, le chiese abbandonate, i trasporti inesistenti, le strade sporche e sconnesse, la differenziata al 20%, nemmeno un impianto di compostaggio, la disoccupazione giovanile al 50 %, i viaggi della monnezza in Olanda con una emergenza che può riesplodere da un momento all’altro, e diciamo che tutto il mondo è paese, che i problemi ci sono ovunque, che Napoli è come Alessandria.

Mi sembra che la negazione della realtà sia una vera patologia. Capisco il bisogno di sopravvivere, di non vedere. Ma chiamare questa miopia, “amore per Napoli” è ridicolo.

Chi nega i problemi è il principale responsabile della loro esistenza. Se non ne prendiamo coscienza, non cominceremo nemmeno a lottare.

Sempre su questa scia non sono mancati – anche se molto rari, per fortuna – i soliti insulti: “Sputi nel piatto dove mangi. Napoli non ha bisogno di detrattori. Sei razzista! Chi parla male di Napoli è un nemico della città. Togliti dalle palle, vattene a Stoccolma, non abbiamo bisogno di detrattori e nemici”.

Ecco, qui ci avviciniamo a un tema interessante.

A Napoli se parli di un problema, sei tu il problema. Mi è già capitato con il post e il libro sullo “Steve Jobs napoletano”.

Se sollevi una questione, sei tu la questione.

Scampia, ad esempio, deve liberarsi di Saviano, non della camorra. Perchè non è la camorra che umilia Scampia. E’ chi la racconta.

Questo desiderio di non vedere, di consolarsi con il proprio mito, quello della bellezza, del cibo, della musica, della tradizione, chiudendo gli occhi sulla realtà, arriva a identificare come nemico chi apre gli occhi e chiede a tutti di aprirli. Parlare delle cose che non funzionano è sputare nel piatto? Sollevare il velo sui problemi è buttare fango?

A me sembra che in questo pensiero ci siano molte delle cause del degrado in cui viviamo. “Chi ama Napoli, ne parla bene. Chi parla dei problemi, non ama Napoli”.

Io penso esattamente il contrario. Chi nega i problemi, ne è causa.

Infine: “Basta parlare delle cose negative. Parlate delle cose positive. Fate qualcosa invece di lamentarvi solo. Rimboccatevi le maniche. Parlate di quello che funziona”.

Questa è una critica più “politicizzata”.

A Napoli, anche se molti non se ne sono accorti, è in corso una rivoluzione. C’è un sindaco che ritiene di stare operando una trasformazione radicale della città. Un cambiamento epocale. Il sindaco, che l’Espresso ha ritratto come il pazzariello di Totò, si intesta i risultati positivi e scarica quelli negativi sul Governo e sui sindaci precedenti.

Insomma, i meriti sono sempre i suoi e i demeriti sempre degli altri.

Con lui c’è una schiera, non molto numerosa, ma molto attiva sul web, di azzannatori che quando qualcuno avanza una critica, interviene e dice, più o meno, che bisogna smettere di lagnarsi, che bisogna fare, che bisogna parlare delle cose positive, che il cambiamento c’è e chi non lo vede è in malafede, che l’ottimismo risolve i problemi mentre il disfattismo li acuisce, anzi li crea.

Conseguenza di tutto ciò è che quando intellettuali del calibro di Roberto De Simone tracciano un quadro critico e dolente sulle condizioni attuali di Napoli, si alza la contraerea e bombarda di accuse personali il soggetto, arrivando a chiedergli “che cosa fai tu per Napoli? Rimboccati le maniche”.

E’ chiaramente una tecnica, una cortina fumogena che viene alzata per coprire il deprimente stato delle cose e l’assoluto immobilismo di una classe politica che, per anni, ha criticato il potere in città e, oggi che lo gestisce con inconcludenza, ha lo stesso atteggiamento censorio verso le voci di dissenso, verso chi critica.

Il potere, si sa, vuole zittire la critica, perchè svela le contraddizioni, le promesse mancate, le ambiguità, i sospesi.

E lo fa con tutte le armi a sua disposizione. La denigrazione personale, innanzitutto. Quel fascismo sottoculturale per cui, se non sei con me, sei contro di me; se critichi sempre, sei un disfattista; se sollevi un problema, appunto, sei tu il problema.

Personalmente, sono per la verità.


Amo questa città.

Chiudere la bocca e levarsi dalle palle i critici è, in fondo, la tentazione di tutti i poteri, ed è il meccanismo stesso della conservazione.

Lo volevano i laurini del sacco di Napoli, che usavano esattamente gli stessi argomenti dei “rivoluzionari” di oggi (volete male a Napoli, i panni sporchi si lavano in famiglia); lo volevano i democristiani degli anni Ottanta, in modo più felpato, e lo vogliono anche i nuovi potenti.

Sono varianti della stessa necessità di negare la realtà, di chiudere gli spazi critici, di coltivare il pensiero unico, di autoconsolarsi con i miti della storia, della bellezza, della simpatia, e rappresentare così una realtà edulcorata, finta, per costruire l’ennesimo inganno sedativo.

Io considero il senso critico, invece, come unico, vero esercizio intellettuale. Il cambiamento nasce sempre dalla critica. Chi racconta i problemi aiuta il cambiamento. Chi li nega, alimenta l’immobilismo.

Io confido nella rabbia e nella conoscenza.

I napoletani non devono viaggiare

Ho fatto un errore madornale. Uno sbaglio che un napoletano non dovrebbe mai fare. Sono andato all’estero per tre giorni, e poi sono tornato.

L’errore, in realtà, è ancora più grave. Non sono andato ad “un estero qualunque”. Ho fatto tre ore di aereo e sono sbarcato a Stoccolma.

Ho visto una città civile e sono ancora sotto shock.

Lì non buttano i televisori guasti per strada. Non ci sono materassi dismessi sui marciapiedi. Non ho visto lavatrici arrugginite lungo gli assi stradali. Non c’erano cartacce, cicche, cartoni, supersantos negli alberi. Non c’erano banchetti di sigarette, dvd falsi, mercanzia varia. Non c’era merce esposta per strada che ti costringe a camminare tra le auto. Non c’erano auto parcheggiate sui marciapiedi.

Non ho visto un solo vigile urbano. Non ce n’era bisogno. Ho visto le piste ciclabili. Quelle vere, non quelle disegnate.

Ad un certo punto dovevo prendere un autobus. Sono andato al capolinea, ho visto un piccolo edificio illuminato, avevo bisogno di una informazione e sono entrato. Ci sarà qualcuno che mi spiegherà. Entro e trovo un tabellone luminoso. Numeri, orari, linee. Poi panchine, poltrone, reception e biglietterie. Trovo la mia notizia, chiara, in inglese, su un tabellone e faccio per uscire. Io, che quando a Roma o a Napoli vedo una pensilina, mi emoziono, ero convinto che assunta l’informazione, dovessi andarmi a trovare il mio pullman all’esterno.

No.

Quell’edificio era la stazione degli autobus. Aveva i gate per ogni pullman, per ogni linea. Poltrone al chiuso, tabelloni e porte girevoli che si aprivano all’orario di partenza come fosse un aeroporto e ti portavano direttamente nel pullman.

Che, ovviamente, è partito in orario perfetto.

E dentro nemmeno una voce, un sussurro, un gridolino. Cinquanta persone sistemate, ognuna al suo posto, in silenzio.

Ho visto la gente stare insieme senza disturbare gli altri. Ho visto le persone dirsi le cose sussurrando, a bassa voce, senza sbracciarsi. Ho visto file ordinate e pazienti. Ho visto tutti i tassisti col Pos, e tutti i negozi chiederti di pagare con carta di credito, please. Ho visto un barista inseguirmi per darmi lo scontrino. Ho visto una città quasi del tutto autosufficiente dal punto di vista energetico, con fonti rinnovabili e alternative. Una città con i riscaldamenti sempre accesi, e alimentati quasi per intero dalla termodistruzione di 300mila tonnellate di rifiuti l’anno in centro, e niente tumori o comitati popolari con il teschio sugli striscioni, con biomasse e biogas usati anche per far viaggiare gli autobus.

Ho visto la città più ecologica al mondo. Non ho visto cassonetti, netturbini, discariche, isole ecologiche, depositi di ecoballe, e nemmeno orrende campane per la differenziata. Non c’è bisogno. Si raccoglie palazzo per palazzo. Differenziare conviene. Le imprese fanno a gara a comprare plastica, carta, vetro, e danno molti soldi ai condomini, che vendendo i materiali si pagano i costi di gestione.

Gli scarichi, per lo più, finiscono in enormi cisterne nel sottosuolo, dove vengono trattati e poi riutilizzati come energia per cucine a gas. Quelli depurati e limpidi alimentano il mare.

Ho visto pannelli solari su ogni palazzo, in una città senza sole, ed enormi vetrate senza tende, per raccogliere tutta la luce, e farne energia. Ho visto recuperare l’acqua piovana e fare irrigazione anche solo per le piante di finestra.

Ho visto ciascuno prendersi cura del suo tassello di interesse collettivo.

Ho visto una città rilassata, pacifica, organizzata, mite. Ho visto un altrove dove le cose diventano possibili.

Poi sono tornato in Italia. Prima a Roma, assediato dai filippini che mi volevano vendere un ombrello alla stazione Termini, dove l’autobus mi ha lasciato a duecento metri dal terminal, che ho fatto sotto la pioggia, scivolando sui sanpietrini sconnessi, schivando gli ambulanti, rischiando di finire sotto una macchina perchè sono sceso dal marciapiede dov’era parcheggiata un’altra macchina.

Poi, a notte quasi fonda, sono arrivato a Napoli. Ho preso un taxi. Ho tenuto gli occhi chiusi. Sono salito a casa.

Da quel momento non sono più uscito.

Non ho il coraggio.

Ho solo aperto la finestra, stamattina, e ho visto una donna chiedere, ad alta voce, alla signora del primo piano, che vende le sigarette di contrabbando col panaro dal balcone, tre pacchetti di “Mabboro” morbide. E lei rispondere, dalla cucina, senza nemmeno affacciarsi, che le “Mabboro” non stavano arrivando più, che ci stava la sfaccimma della finanza che stava rompendo ‘o cazzo al porto, ma roba di due, tre giorni, e tutto si sistemava.

Di più non ho voluto sapere.

Radici sulle radici

Ho ancora quell’emozione liquida nelle ginocchia. Ed è così che voglio raccontare questa storia. Prima che il mio cervello si immerga nella sua rabbia cronica. Prima che la mia sfiducia assoluta nell’umanità, e nel futuro, tornino a mescolarmi i pensieri coi ricordi e col soffritto amaro di quello che non può più essere. Prima che scriva anche la terza frase sul prima, che alla quarta già questa storia potrebbe non esistere più.

Voglio farlo subito, voglio farlo così, perchè ci sono lampi improvvisi che se li fotografi poi è bello metterli su una parete.

Ma mi sto attardando, e se non faccio in fretta sfuma tutto, come l’olio nella padella.

Voglio raccontare la storia di un invito, di una presentazione, di una conoscenza bella, di sette ragazzi (ma forse erano di più, boh, settantasette). La storia di un lampo di speranza, che prima di finire questo pezzo, sarà già passata, ma per intanto voglio nutrirmene come quando mangi un piatto buono e sminuzzi l’ultimo boccone.

E’ successo questo.

Sono stato invitato ad un incontro. Una chiacchierata sul mio libro. E’ successo quasi cinquanta volte da gennaio. Ho fatto presentazioni ovunque, da Vicenza a Firenze, da Gabicce a Prato, da Catanzaro a Viterbo, da Brindisi a Cosenza, e praticamente in tutta la Campania. Ogni volta che mi chiamano resto sorpreso. Volete me? E perchè? La stessa reazione l’ho avuta quando mi hanno scritto dal Festival della letteratura mediterranea. Il nome mi metteva già soggezione. Una rapida ricerca sul web mi ha fatto crescere l’ansia. Decima edizione di un festival internazionale. C’erano stati, negli anni, scrittori italiani importanti come Carmine Abate, Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Raffaele Nigro, e poeti del mediterraneo di grande ispirazione e prestigio di cui non faccio i nomi perchè figuriamoci chi conosce un poeta marocchino, di questi tempi.

Che c’entro io, quindi?

Ho provato timidamente a chiederlo ma mi hanno detto che c’entravo. Punto. Accetto. Punto. Tanto mancavano alcuni mesi, e poi si vede.

Venerdì arriva il momento di partire. Cerco di non coltivare mai aspettative. E’ una mia profilassi sentimentale. Sono cauto. Vado e mi trattengo il necessario. Magari riparto dopo l’incontro, oppure all’alba. Due ore da Napoli. Il posto è Lucera, in provincia di Foggia. Non so dove sia. Non so cosa sia. Sarà uno di quegli agglomerati informi di case e apatia che spuntano, a volte, nelle campagne desolate del sud.

Parto con questo spirito. Cioè assenza di spirito. Guida Simona, che sa quando è il momento di mettersi ai comandi, e lo fa con la solita morbidezza e decisione.

Le pale eoliche tra Lacedonia e Candela non aiutano. Sono manichini impiccati al vento, fa impressione vederne la base. Un monopiede nel gesso. Questa campagna, poi, tutta piatta, che sembra infinita, mi dà la sensazione terribile che non arriveremo mai; invecchierò così, in auto, nell’abitacolo di una utilitaria, su una pianura a cercare per tutta la vita un paese che non esiste.

Poi compare Foggia. Duecento condomini di balconi, vasi di fiori, ringhiere arrugginite, bar, auto in sosta. Niente altro. Da Foggia c’è una strada verso Lucera che si chiama, ovviamente, Via Lucera. Poi scoprirò che nel senso opposto si chiama Via Foggia. Arrivo alla base di una collinetta, salgo qualche tornante e mi trovo al centro di un borgo silenzioso e chiuso in una pietra bianca levigata e leggera. Un labirinto di lastroni, con palazzetti raccolti, pacifici, con un ordine irreale. Ci sono inusitati richiami letterari nelle insegne dei bar. C’è una frase di Kerouac sullo stipite di una enoteca. C’è una osteria intitolata ad un libro di Bruce Chatwin, Utz, che io ignoravo. C’è un bar Svevo, di cui parlerò. Che bello, intolato a Italo Svevo, mi sono detto. No, il richiamo è agli svevi, una delle culture che nei secoli hanno contaminato questi luoghi, senza conquistarli mai.

Trovo Lucera straordinaria. Come la sorpresa magica dall’uovo Kinder. Accolgo la sua luce (ecco) tirandola nei pori, come faccio con l’aria fresca della sera. Ho la presentazione alle sette, arrivo alle sei e mezza. Giusto in tempo per parcheggiare e guadagnare la piazza.

Piazza Oberdan.

Ci trovo duecento sedie. Vuote. Un riflettore. Due tavoli. Cinque persone. Vabbè, non verrà nessuno. Facciamoci un giro. Sono cinque minuti di solita vita, solita noia.

Ma solo cinque, perchè da quel momento tutto cambia.

Tutto, fino a che non finisco di scrivere questo post, naturalmente, che dopo si torna lì da dove si era partiti. Al nulla in scatola di questo tempo così.

Ma lì cambia. Mi si fanno incontro i ragazzi dell’associazione che hanno organizzato il festival. Sono molto giovani, sono sobri, hanno una bella luce negli occhi. Non so bene chi conosco per primo. Forse Modestina, che si occupa dell’accoglienza; forse Francesca, o Annalisa. Non ricordo. Andiamo al bar, conosco Nicola, poi arriva il presidente. Conosco giovani organizzatori a raffica, uno dietro l’altro. Sono colpito dai loro volti essenziali. Sono senza trucchi. Mi colpisce la loro giovane età, penso che siano i volontari, quelli che i direttori organizzativi di vecchi babbioni mettono a gestire l’aspetto pratico delle iniziative che poi, loro, si fregiano di vantare sui palchi e nelle interviste. E invece i ragazzi mi spiegano subito come stanno le cose. “Dopo nove edizioni del Festival, l’associazione ha rinnovato il suo Direttivo. I vecchi organizzatori hanno fatto un passo indietro. E’ nato un gruppo di sette giovani, con meno di trent’anni, che quest’anno organizza il festival direttamente. Un bell’impegno, perchè è la decima edizione”.

Resto colpito. Vecchi che fanno un passo indietro e lasciano le chiavi di casa ai ragazzi? In Italia?

Ci deve essere un trucco.

La mia presentazione, intanto, incombe. Arriva Pino Bruno. Sarà il moderatore della serata. Ci conosciamo in questa occasione. Poi scopro che è un giornalista con i controcoglioni al quadrato (scusate ma non trovo un’altra espressione). Lavora alla Rai di Bari, era praticante all’Ansa quando nel 1980 lo mandarono in Irpinia per il terremoto, poi si è fatto un po’ di guerre (ex Jugoslavia, Somalia) per il Tg1. Infine, è tornato alla sua terra. Amandola, però. Questo è un punto che scoprirò ora dopo ora per tutto il mio soggiorno. In lui e nella moglie Rossella – persone umili e gigantesche -, con cui è nata una vera amicizia ma anche nei ragazzi.

L’amore rabbioso per la loro terra.

La presentazione va alla grande. Lucera si sveglia un poco alla volta. Compaiono ombre dai vicoli, uomini e donne con braccia conserte, silenziosi si siedono. Volto lo sguardo e mi accorgo che la piazza è piena. Pino mi trascina in un portone. “Devo farti vedere una cosa”. Nel cuore di un palazzo c’è un giardino magico. Un melograno con i frutti, come un giardino di Pantelleria. E’ il cortile di un B & B. Incontro Antonio, un ragazzo. Proprietario e gestore. Anche lui è uno dei raggi di quel lampo che sto fotografando, scrivendo. Il B&B si chiama Le foglie di acanto, andateci. E’ meraviglioso. C’è un camino incantevole. E un pianoforte. Antonio mi racconta la storia di questa impresa. Una ristrutturazione timida, un’accoglienza semplice. “Le cose vanno abbastanza bene, non mi lamento. L’importante è sentirsi sereni col proprio lavoro”.

Sereni col proprio lavoro.

Mi sembra un concetto rivoluzionario.

Torniamo sulla piazza. Parliamo del libro per due ore. Nessuno si alza. Ascoltano, ridono. Saranno duecento. Non ci posso credere. Dopo firmo libri. Mi dicono che ne hanno venduto sessanta. Mi fanno i complimenti. Ma io vorrei farli a loro. Si può parlare di letteratura in un piccolo paese del sud alle dieci di sera di un venerdì, in piazza, con duecento persone che ascoltano?

Sì, evidentemente.

Dopo la presentazione, sempre all’aperto, in un’altra piazza del paese c’è uno spettacolo di musica e parole. E’ così per cinque giorni. Una poetessa siriana, uno scrittore francese, musicisti, attori: il palcoscenico naturale sono le strade del centro storico.

Questo è il festival.

Prima, durante il tragitto, grazie alla contagiosa energia di Pino Bruno, comincio a conoscere meglio questi ragazzi. Un viaggio nelle loro vite, che continua la mattina dopo, perchè intanto ho deciso di restare anche la mattina dopo, e anche il pomeriggio, e anche la sera, e una notte ancora, e anche la mattina dopo.

Perchè a Lucera c’è la luce. E questi sette ragazzi, che sono settantasette. Conosco Berenice, che scatta foto a raffica; e altri di cui non ricordo i nomi, ma benissimo i volti. Provo a capire che storie hanno. Resto colpito. Sono andati tutti via, ad un certo punto. Via dal paese, via dalla Puglia, via dal sud. Verso Roma, verso il Piemonte, verso l’estero. Si sono laureati. Chi in Ingegneria, chi all’Accademia, chi in Scienze gastronomiche, chi in Arti e Spettacolo. Solo che dopo la laurea, dopo qualche lavoro, hanno deciso di tornare. Me lo spiega bene Nicola, che poteva andare a Bruxelles: “sono tornato perchè qui mi sento al sicuro”. Oggi fa il vino con il nonno e il padre in un’azienda agricola, e vive al centro di Lucera con la fidanzata. Con loro lavora anche la sorella. Fanno un bel vino nero – non rosso – che beviamo con piacere tutte le sere. Conosco anche i genitori. “Abbiamo lasciato che fossero liberi di scegliere – dicono – oggi sono qui e siamo felicissimi”.

Sono tornati, ma hanno i piedi nella terra. Letteralmente. Hanno deciso di mettere radici sulle radici. Sanno che dovranno vivere con meno mezzi, meno soldi, rinunciando a qualcosa, togliendo alle famiglie l’ambizione del salto sociale. Tornano alla terra, quella del nonno. Sono agricoltori laureati. Consapevoli. Pronti a nutrirsi della loro storia, perchè sui tuoi luoghi ti senti al sicuro.

Non è mammismo. Anzi, sì. Ma per la madre terra.

Trovo la stessa storia in un altro ragazzo. Laureato a Roma, torna a Lucera e fa i dolci nella pasticceria di famiglia. Uno spumone eccezionale. Mangiatelo (Bar Svevo). E’ tornato anche lui. Non per viltà ma perchè in un mondo che ti fa ballare come una majorette triste sui suoi ritmi infernali, bisogna ritrovare un senso.

Questi sette ragazzi, anzi settantasette, sono tornati per lavorare con serenità. Amano la loro terra, e per questo fanno il festival. Senza scopo di lucro. Senza simboli di partito. Il loro impegno è “politico”, ma non vogliono nemmeno saperlo. Non hanno altra ambizione che lavorare con serenità.

Organizzano il festival con gli avarissimi contributi di qualche istituzione, e uno sponsor tecnico generoso (Edison Luce, in questo paese luminoso). Lo organizzano in modo straordinario, costruendo una rete tra loro. Ci fanno alloggiare nei B&B dei loro amici, che sono tornati, hanno messo a posto le vecchie dimore dei nonni e ci hanno fatto accoglienza turistica; ci fanno mangiare nelle osterie dei loro amici, che sono tornati, dopo aver studiato, e sperimentano cucina tipica e di innovazione; ci fanno bere il vino delle loro cantine, fatto con le loro mani come quello di Marika Maggi e Sergio Grasso, della cantina La Marchesa, che hanno rimesso in moto i poderi di famiglia e ci fanno una bottiglia di rosè buonissima e profumata chiamata Il Melograno. Queste sette ragazzi, che sono settantasette, ci portano a vedere il loro Paese, a sentire l’odore della loro terra. Li guardo pensando, invece, ad altri amici che sono andati via, che hanno fatto altre scelte, che rispetto profondamente, ma che si traducono in piccoli massacri personali, nel corpo, nell’anima, nello sradicamento, nel senso permanente di estraneità che si portano dietro, ad un certo punto, anche negli affetti, nell’essere.

Mi specchio, invece, nella speranza asciutta di chi è rimasto e per un attimo ne vengo contagiato. Forse si riparte da qui, da Lucera, da questa rete di ritornati alla terra. Forse si riparte proprio dalla terra, come sempre quando si cade in ginocchio.

Io, per un po’, l’ho fatto e ringrazio questi sette ragazzi, che sono settantasette raggi del lampo che ho provato a fotografare.

In ginocchio da te

Una mia cronaca del miracolo di San Gennaro, pubblicata dal sito www.mediterraneonews.it

San Gennaro (anzi Gennarì, per noi che siamo in confidenza) non tradisce mai. Fa sempre notizia. Se il sangue non si scioglie, va decifrato il rebus dell’ira funesta. E sono prime pagine. Se si scioglie, va interpretato il buon augurio. E sono prime pagine. Se tarda, si interpreta il segno, e sono prime pagine. Se si affretta, si gonfia il cuore di speranza, e sono campane a festa.
C’è solo un’altra cosa, in città, che ha lo stesso effetto di “faccia gialla”: il pallone. Basta una semifinale di Coppa Italia per iniettare nelle vene di Napoli la droga euforica della speranza. Perché in questa città, dove un piatto a tavola si mette, la fame è sempre di speranza. Vulesse Dio. Foss’o cielo. A Maronna t’accumpagna. Faccia gialla, fallo ‘sto miracolo. Il sacro è meglio del prozac.
Una città in ginocchio di suo, deve dare un senso alla sua postura. E la chiama fede. San Gennaro e San Cavani. In ginocchio da te. Se sciogli il sangue, se la butti dentro. L’aveva capito pure l’indimenticato poeta del Mistero di Bellavista: “San Gennaro, non ti crucciare. Io ti voglio bene, tu lo sai. Ma ‘na finta di Maradona squaglia il sangue nelle vene”.
Santi del cielo e santi della terra. E più terreno di Gennaro, non ce n’è. Lo invocano nobili e miserabili. Tutta la città se lo chiede dal mattino. Chi può, scende di casa, e “va al miracolo”, come fosse una partita di pallone. In realtà, si chiama prodigio della liquefazione. Miracolo è una parola impegnativa. La Chiesa si tiene cauta. Ma si veste a festa. Oggi, alle nove e dodici, la teca con le due ampolle, tra le mani del cardinale Sepe, nel Duomo di Napoli, aveva fretta. E’ un autunno ansioso, questo qui. Il sangue si è sciolto subito. I dodici detenuti di Secondigliano e Poggioreale, presenti in cattedrale grazie ad un permesso concesso dal tribunale di sorveglianza, si sono commossi. Magari esce un nuovo indulto. Ognuno, come con le stelle cadenti, o a capodanno, o come quando spegni le candeline del compleanno, ha chiuso gli occhi e ha espresso un desiderio. Non si realizzerà. Ma che ci perdiamo? “Se non giochi non vinci”.
Il sindaco de Magistris si è fiondato a baciare la teca, dalle mani dello stesso cardinale a cui aveva detto “che pena”, due settimane prima, quando lo aveva criticato sui quartieri a luci rosse. Lo stesso Sepe non ha perso tempo. La politica bacia la mano. E la mano sacra si alza sulla politica. Più o meno come quando, un anno fa, al centro dello stadio San Paolo (un altro santo), lo stesso Sepe e lo stesso De Magistris, con 30mila tifosi sugli spalti, benedirono la squadra di calcio, che poi avrebbe vinto la Coppa Italia. Sacro, profano, politica e pallone. E’ il nostro impasto. La colla che ci tiene uniti. Non c’è da scandalizzarsi, e nemmeno tanto da sfottere. Nessuna ironia su San Gennaro, non ce la possiamo permettere. Di questi tempi, meglio averlo amico che nemico. “San Gennà facci la grazia!”. La supplica l’hanno fatta anche gli attivisti dell’associazione di cultura omosessuale i-Ken. Hanno distribuito una preghiera sul sagrato del duomo: “…passa ‘na mano ‘ncoppa a tutta sta ignoranza, ‘ncoppa a tutta sta viulenza, si fermi l’omofobia!”.
Stavolta, però, forse, hanno chiesto un po’ troppo.
Provate con Santa Patrizia, che scioglie il sangue pure lei, il 25 agosto, a San Gregorio Armeno. Ma nessuno lo sa. E’ un sangue minore. Sangue di minoranza. Un prodigio di serie B. Mio Dio, speriamo di non tornarci più.

Marco vuole restare a Napoli

L’ultimo rapporto Migrantes conferma quello che sentivamo già addosso. Ne parla oggi Il Mattino.

I nostri amici, i nostri fratelli, i nostri vicini, i nostri compagni di studio ci stanno lasciando. Se ne vanno. Abbandonano Napoli, abbandonano il Sud, abbandonano l’Italia.

A gennaio del 2010 erano 420mila i campani residenti all’estero. A gennaio del 2012 erano 10mila in più.

Ci stiamo svuotando.

Partono i giovani tra i 25 e i 35 anni. Partono per non tornare. Partono per sempre. Partono per avere un’opportunità. Non è la migrazione poverissima del Novecento. Nessuna valigia di cartone. Partire è quasi un lusso. Parte chi se lo può permettere, chi ne ha la possibilità. Chi ha qualche carta da giocare. Laurea, master, valigia. Si parte felici? No, non mi pare.

I miei amici andati hanno un lutto permanente, il nastro nero sul cuore. Non è la nostalgia delle «lacrime napulitane». È il dolore sordo della necessità. Partire non per scelta ma perché non c’è scelta. Si diventa, così, barche ancorate sull’abisso. Il prezzo della realizzazione è recidere le radici, coltivarle nel vaso stretto della nostalgia, o di ritorni low cost, sempre più faticosi.

Mamme che dicono «vai, non ti preoccupare per me», rovesciando il copione della chioccia perché l’amore è innanzitutto rinuncia.

Relazioni che si frammentano. Ragazzi che temono legami sentimentali. Stiamo insieme così perché su questa giostra, magari, io finisco a Nord e tu ad Est.

Amicizie collassate come mongolfiere che precipitano all’improvviso.

E, su tutto, la dittatura feroce del lavoro.

Ma c’è chi si ribella.

Marco, dopo la laurea in Lettere (follia) con 110 e lode, e un master, non vuole partire.

Ingaggia addirittura una lotta furiosa con il padre e con la madre. Gli dicono «cazzo fai qui? Vattene via». Hanno una figlia a Verona. Insegna in una scuola privata. Le suore. Pagano bene. Un po’ severe. Ma pagano. E quando falliscono le suore??

La ragazza ha parlato alle monache di questo fratello bravissimo. C’è un posto per lui a Verona, nella scuola delle suore.

«Vai, Marco, che cazzo ci fai qui? Napoli è morta. Vuoi morire pure tu?».

«Ci trasferiamo tutti».

Marco, però, non vuole partire.

Ha un nonno pazzo e geniale, un ottantenne con i jeans, la camicia bianca e i capelli come Einstein. Ha fatto il professore e quando gli è morta la moglie, si è ritirato su un piccolo pezzo di terra con una casupola. Il fatto è che questo sputo di terreno sta al Vomero, il quartiere napoletano del cemento e dei palazzi, in mezzo alle case.

Proprio in mezzo.

Un fazzoletto di terra nera, per giunta edificabile, dove avrebbe potuto costruire una villa da due milioni di euro, e dove, invece, lui si ostina a coltivare un orto e una vite.

Una vigna di città, da cui fa un rosso che ha chiamato, beffardamente, «vaffanculo».

Il nonno dice a Marco una cosa sola: «le radici hanno bisogno di terra, scegliti una terra e metti radici. Non ti muovere più ».

Marco ha scelto. Le sue radici le tiene a Napoli, ben salde. Non è un mammone, non è un fannullone, non è uno sfaticato.

È solo uno che vuole restare a Napoli.

«Ma qui che fai?», gli chiede il padre, ansioso.

Che fa? Insegna in una scuola privata, senza stipendio. Per fare punteggio. Fa supplenze nella scuola pubblica. Per fare punteggio. Scrive su un giornale. Gratis. Per fare esperienza. Fa tre stage in aziende private. Gratis. Per fare curriculum. Fa dodici concorsi pubblici. Pochi posti per migliaia di concorrenti. Per provarci. Invano. Collabora col professore all’Università. Gratis. Non si può mai sapere. Finisce in un call center. Cinque euro l’ora. A nero. Per pagarsi la benzina.

Per lo Stato, Marco è disoccupato. Ma lui non fa che lavorare. Non guadagna. Ma lavora, lavora, lavora come un pazzo.

Perché qui il lavoro c’è, non si fa che lavorare. Solo che nessuno paga.

Marco resta a Napoli. Vuole restare a Napoli. È dopo otto anni, una Laurea, un Master, 12 concorsi, 17 colloqui, tre stage non retribuiti,  capisce che c’è, però, un prezzo da pagare.

Sia che parti sia che resti.

Partire significa andare in frantumi restando in piedi, ma restare significa riscrivere l’idea di sè.

A Marco, ancora una volta, lo spiega il nonno, con una lettera che lui trova dopo la morte del vecchio.

«Se vuoi restare, cambia tutto. Spariglia. Pigliati questo spazio».

Marco, oggi, fa il contadino al centro di Napoli. Coltiva quel terreno al Vomero. Ha appeso la sua Laurea in bagno, tra il water e il bidet.

Vicino ci ha messo anche la pergamena del Master.

Marco coltiva un orto biologico. Ci tira ortaggi e verdure per sè, e per due supermercati della zona. Ha fatto crescere la vigna, l’ha resa rigogliosa, ha comprato una macchina per il vino.

Ne tira un bel po’ di bottiglie, è un bel rosso, lo vende a tutto il quartiere. Ci campa, ma solo perché ha tolto il piede dall’acceleratore.

Vive di poco.

Pochi soldi, meno consumi, non ha l’auto, veste semplice, scrive per sé, ha rinunciato all’insegnamento.

Gli basta la terra. Uno sputo di terra nel cuore della città.

Al vino, intanto, ha cambiato nome. Lo ha chiamato «radici». Sull’etichetta ha messo una foto del nonno, e minuscolo, giusto sotto, in suo onore, ha lasciato scritto: «vaffanculo».

Il funerale del lavoro

Domani è il primo maggio. Si celebrano in tutto il mondo le conquiste dei lavoratori. E’ una festa operaia, nata alla fine dell’Ottocento. Segnata da splendide lotte sindacali. Domani ci saranno cortei, concerti, comizi. Quante ne ho sentite. 

Devo dire che festeggiare il lavoro, oggi, mi mette molta malinconia. Come orfani alla festa del papà, ci aggiriamo lungo questa giornata guardando con un filo di invidia i pochissimi che hanno un lavoro fisso, garantito, tutelato, con salario intero, e rimanendo, invece, attoniti per quello che siamo diventati. 

Precari cronici, spaventati, flessibili, sottopagati, sorridenti per forza maggiore, alienati, divisi, laureati, soli, insultati dalle generazioni precedenti, irrisi dai benestanti. E, spesso, perfino disoccupati. Liberi anche da questo lavoro sporco, povero, miserabile. Sono più di 120 anni che è il “primo maggio”. 

Ma più che festa, lo chiamerei funerale.

 
 
 

Che bella, Napoli, vero?

Con la pezzotto Cup di vela, vinta amichevolmente in acque casalinghe da Luna Rossa, Napoli ha ricordato al mondo che è una città meravigliosa: un golfo magico, e una città verticale straordinaria che, vista dal mare, arrampicata come un’edera, compatta come un borgo, sembra quasi non essere la stessa che vediamo, giorno per giorno, dall’interno, dalle strade, dalle case.

Nelle immagini televisive, che ci hanno riempito di orgoglio, ci siamo tutti specchiati, e ci siamo sentiti più belli, più fieri.

Ma c’era davvero bisogno di ricordare al mondo, e a noi stessi, quanto è bella Napoli?

Io lo sapevo già. E, per quanto è di mia cognizione, lo sapevano anche nel mondo.

Non c’è una sola volta che, in Italia o all’estero, io, dicendo che ero di Napoli, non mi sia sentito rispondere “bellissima”, con varie postille, però. E qui veniamo al punto. Bellissima ma invivibile. Bellissima ma pericolosa. Bellissima ma caotica. Bellissima ma povera. Bellissima ma…

Nessuno ignorava la bellezza di Napoli. Nessuno, al tempo stesso, però, ne ignorava i problemi. E se qualcuno stava lontano da Napoli lo faceva non perchè pensasse che fosse brutta. Ma perchè era spaventato dalle sue mille emergenze, dalle ferite sempre aperte.

Ecco perchè considero le esibizioni amichevoli di vela una operazione fondamentalmente inutile. Ad uso più interno che esterno. Ha solleticato molto la nostra vanità di popolo (il 90 % dei presenti era napoletano), il nostro orgoglio collettivo; è piaciuta molto al nostro simpatico narcisindaco, che ha indossato con grande classe la felpa della multinazionale Prada.

Ma non credo che produrrà grandi effetti sul futuro di Napoli.

La città, dal mio punto di vista, non ha un problema di immagine. Ha un problema di sostanza. Per voltare davvero pagina, per attrarre turisti e investimenti, bisogna poter dire al mondo che Napoli, oltre ad essere bella, cosa nota da secoli, è finalmente anche “normale”, oserei dire “ordinaria”. Una città dove si può stare, si può vivere, si può investire, si può camminare; una città che, come tutte le metropoli, ha imparato a gestire da sola il problema dei rifiuti, dove l’ordine controlla il territorio, dove la microcriminalità è combattuta vicolo per vicolo, dove si può giocare una scommessa sul futuro, con nuovi investimenti e più lavoro, ma anche su un presente di certezze minime, quelle della legge, della convivenza civile, del rispetto delle regole.

Quando potremo dire queste cose al mondo, saremo davvero sulla rampa di lancio.

Per ora, su quella rampa ci sono solo fuochi d’artificio. Tanti colori, tanta bellezza, tanto fumo.

Come nel famoso “rinascimento” di Bassolino: ve lo ricordate?

 

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